Perché ai media serve un correttore di pregiudizi

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I pregiudizi sono necessari per comprendere la realtà. I pregiudizi sono mappe che ci guidano in territori sempre più complessi e mutevoli: senza pregiudizi non potremmo nemmeno pensare, tale sarebbe la quantità di informazioni che dovremmo processare in ogni momento della nostra vita.

Dobbiamo costantemente “pre-giudicare” ciò che ci circonda: solo se il 99% delle informazioni che ci raggiungono è già pre-classificato come noto, sicuro, associato a qualche significato nel nostro cervello, potremo dedicarci al restante 1% per decidere come comportarci.

La capacità di trasmettere la conoscenza tra le generazioni è ciò che ha reso la specie umana così avanzata: ognuno di noi, nel nascere, beneficia di un insieme enorme di conoscenze implicite ed esplicite, che ci fa partire dall’oggi invece che continuamente dall’originario punto di partenza. Quelle conoscenze sono associazioni intelligenti tra concetti, associazioni che hanno dimostrato di funzionare e di essere utili: per esempio “il fuoco brucia”, “l’acqua disseta”, “una pistola è pericolosa”.

Ogni volta che impariamo qualcosa, creiamo una nuova associazione. E spesso per farlo dobbiamo romperne una precedente. Ma è stato dimostrato, per esempio, che nemmeno i neonati sono tabula rasa: sin dalla nascita portiamo dentro di noi alcune conoscenze condivise dalla nostra specie.

I pregiudizi sono dunque collegamenti tra concetti, che facciamo in modo inconscio in ogni secondo, e che mantengono mappata la realtà in cui viviamo in un modo che ci consente di vivere “normalmente”.

Che cosa li produce, che cosa li rafforza, e che cosa può romperli per migliorare il nostro grado di comprensione della realtà?

Esternamente, i pregiudizi si esprimono con i concetti: parole, immagini. Il vocabolario che usiamo è un potente strumento di conoscenza, e quindi anche di pregiudizio. Nasce da qui la lotta per declinare al femminile i nomi delle professioni, quando a compierle sono le donne. Le parole beneficiano di una superstrada verso il nostro cervello: sono veloci nel trasmettere concetti. Ancora più veloci sono le immagini, che si agganciano a un livello di comprensione più immediato e primitivo.

Quello che vediamo, ascoltiamo e leggiamo è terreno di fertile coltura per la creazione e il mantenimento dei collegamenti con cui comprendiamo il mondo. Come in una profezia che si auto verifica, a nostra volta proiettiamo quella mappa nei nostri comportamenti e nelle parole che usiamo ogni giorno, rafforzandola ancora. Ogni pregiudizio è strutturalmente disegnato per auto-confermarsi: perché questo fa risparmiare energie al cervello.

Chi descrive qualcosa per gli altri, sta necessariamente pre-giudicando, nel momento in cui sceglie che cosa dire e che cosa no. Il rischio diventa più alto quando si possono usare poche parole o un’immagine: come far intravedere qualcosa in modo immediato senza affidarsi alle definizioni più note in circolazione? Chi fa comunicazione sa che la finestra di attenzione dell’interlocutore è minima, e che questi è raramente disponibile a soffermarsi in caso di messaggi incerti.

Proprio per questo potrebbe essere interessante per i media, tradizionali e social,  introdurre una nuova figura professionale: il correttore di bias (bias è il nome cool dei pregiudizi). Serve un professionista dedicato a intercettare le innumerevoli volte in cui sviste editoriali rafforzano in modo impercettibile e inesorabile vecchie immagini del nostro mondo.

Non sono mai episodi eclatanti, e la loro dannosità sta proprio qui: sono milioni di minuscole gocce velenose di obsoleto che ritardano la nostra possibilità di dare forma al nuovo.

I giornalisti dibattono da tempo del tema – ne è un esempio il “decalogo sul femminicidio” proposto dal direttore di Repubblica – e sono discussioni che infiammano sempre cuori e talenti. Ma i luoghi in cui si annida un rischio forse maggiore – e quindi può emergere una grande opportunità di creare nuove connessioni tra i concetti – sono quelli in cui c’è meno spazio per spiegare: i titoli, le didascalie, i tweet, e ovviamente le immagini.

Quando una coppia viene assassinata e dalle notizie si evince la professione dell’uomo e non quella della donna, il correttore di pregiudizi se ne accorge e completa il quadro. Quando il Nobel per la fisica viene assegnato a due uomini e una donna, e solo della terza la didascalia cita la condizione familiare (moglie di, madre di), il correttore di pregiudizi arricchisce le informazioni anche per gli altri due. Se la stessa scienziata si chiama Andrea e un quotidiano la declina al maschile, pur avendo accanto la sua foto, il correttore di pregiudizi interviene.  E via così. Perché, dicevamo, i pregiudizi non nascono dannosi, ma lo diventano quando, invece di aiutarci a comprendere la realtà, ci mantengono in una sua versione precedente e superata, provocando danni reali sulla nostra capacità di muoverci dal passato al presente, verso il futuro.