Il capo che ti dice “fai la brava”, trattandoti come se fossi una bambina. Non lo fa per sminuirti, non consapevolmente. O forse sì. Magari è il suo modo di farti capire che ci tiene a te, pensando di metterti a tuo agio, ostentando una forma di confidenza. E tu non ti scandalizzi più di tanto per una frase che potrebbe dirti tuo padre ma che in un contesto professionale è fuori luogo.

Questo grande classico ha un nome: patriarcato introiettato. Vuol dire che hai accettato il maschilismo al punto di considerare normali i piccoli e grandi soprusi che ne derivano.

In un certo senso te li aspetti, sai che “con certe persone” funziona così. Di solito sono maschi adulti che non sono mai (né ancora) stati sfiorati dal femminismo, perché al primo giro non erano ancora nati e al secondo sono anagraficamente troppo distanti dai valori che vivi ogni giorno sulla tua pelle. Se hanno figlie o nipoti adolescenti, di solito va un po’ meglio. Non sempre.

È una spirale. Vivendo immersi nel patriarcato, a stretto contatto con maschilismi di vario genere, impariamo a darli per scontati. Chiamala sopravvivenza, chiamala rassegnazione, in qualche modo lasciar passare ordinari episodi di mansplaining e cat-calling alimenta questo fenomeno. Introiettare il patriarcato significa rallentare la corsa verso la parità di genere, anche quando è inevitabile. Accettare il fatto di dover faticare più di un uomo guadagnando meno (è il gender pay gap) pur di avere un impiego.

Il patriarcato è quasi scolpito dentro di noi come un imprinting. Dalla retorica del principe azzurro che arriva a salvarti dai draghi o svegliarti dal tuo torpore con un bacio, al complimento molesto non richiesto che dovrebbe lusingarti, al collega maschio che ti spiega con condiscendenza una cosa che sai meglio di lui, alla battutina (che non fa ridere) e cerca in qualche modo di sminuirti, sottolineando il tuo essere fragile, indifesa, sprovveduta, solo perché sei una donna.

“Il sistema patriarcale non è una realtà esterna all’individuo ma vive e si riproduce attraverso di noi. Siamo noi che con il pensiero e l’azione concretizziamo il sistema. Per questo il patriarcato non opprime solo le donne ma tutti i membri della società patriarcale. Il maschilismo, dunque, non è presente solo negli uomini ma anche nelle donne,”

scrive la giornalista Claudia Tatangelo su Libero Pensiero, descrivendo perfettamente la spirale del patriarcato introiettato.

Il patriarcato introiettato è quel fenomeno per cui cerchi l'approvazione maschile. È quando assumi che il maschio più anziano nella stanza sia il capo. È il motivo per cui tendi a dare più peso a ciò che dice tuo padre, rispetto a tua madre, o avere soggezione di un insegnante maschio, considerare un uomo più autorevole rispetto a una femmina (a parità di competenze). È una percezione distorta del nostro sguardo sul mondo, filtrato da secoli di maschilismo.

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courtesy Francesca Bresciani

Testimonianze

Riuscire a riconoscere i segni del patriarcato introiettato non è semplice: anche se ne siamo letteralmente circondati è come se avessimo collettivamente un filtro che ci impedisce di coglierli. Per questo abbiamo chiesto a 5 donne di raccontarci un episodio che le ha colpite, legato al giudizio o allo sguardo maschile.

Le lacrime e il coccodrillo

L'AD della società in cui lavoravo mi fece piangere in riunione davanti ad altri 5 manager, tutti uomini. Mentre si discuteva di un progetto che avevo da lungo tempo approntato e al quale tenevo, e che si era arenato per motivi indipendenti da me, iniziò ad analizzare quanto avevo fatto fino a quel momento con accanimento e disprezzo, toni più denigratori che critici.
Erano le 8 di sera, ero stanca e in più quei commenti erano ingiusti e snervanti. Mi sono venute le lacrime agli occhi, mi sono alzata e ho abbandonato la sala riunioni. Mezz’ora dopo, venne a scusarsi. Visto il soggetto, si trattò di una eccezione e l’aneddoto fece il giro dell’azienda: in quel momento, quasi mi parve d'aver ottenuto una rivincita dopo l’umiliazione subita.
Ma dopo anni, mi sono resa conto che quelle scuse, forse sincere, posavano su presupposti sbagliati: l’AD era risentito per il ritardo accumulato e ha trovato più istintivo scaricare questa frustrazione in pubblico su di me (junior, donna, 28 anni) che non in privato sul diretto responsabile (manager, uomo, 45 anni). Si rammaricava per essere stato così aggressivo e ruvido: io per lui ero come una nipotina e a volte si sentiva in dovere di strigliarmi.
Insomma, non si scusò di avere sminuito la mia professionalità ma di avere urtato la mia indole così emotiva e fragile. Da allora ho smesso di mettere coinvolgimento personale in ciò che faccio, o quanto meno ho appreso a non farlo trasparire: perché quello che per me era autentica passione è stata etichettata come tenera sensibilità, e mi si è rivoltata contro.

Valeria Fioretta, marketer di giorno, vestale delle vaporiere su Instagram. Il suo blog Gynepraio tratta da varie angolazioni la complessità dell'essere donna. È autrice del romanzo Se tu lo vuoi.

Sarà colpa delle scarpe?

Occorre che io faccia una doverosa premessa: con me parlano tutti. Al bar, sul bus, per strada, nei locali, c’è sempre qualcuno che sente il bisogno di dirmi qualcosa. Io chiamo ironicamente questa caratteristica “calamita per gli accolli”. Non mi sono mai state rivolte frasi ambigue, piuttosto il contrario: tutte molto dirette. Da quelle tenere/tragicomiche come il vecchietto che sul bus ha esclamato che le mie ascelle sapevano di primavera a situazioni meno piacevoli, come il tizio che in metropolitana mi ha prima fatto la radiografia e subito dopo si è abbassato la mascherina per dirmi: “Sei illegale” o il tipo che per strada mi ha definita una “fregna pocket”. La peggiore però è questa: un energumeno che fuori dal tabaccaio mi ha prima chiesto un’informazione, poi mi ha presa per un polso e mi ha “invitata” ad andare con lui.
Ecco, in quel momento ho avuto molta paura. Per fortuna ero vicinissima a casa e sono corsa via ma quando sono rientrata mi sono subito guardata allo specchio. Avevo un abito blu piuttosto aderente e indossavo un paio di mary jane rosse col tacco. La prima cosa che ho pensato è stata: le scarpe. È colpa delle scarpe. Queste scarpe hanno attirato l’attenzione, sono troppo evidenti. Le ho tolte e ho messo un paio di anfibi. Ho pensato che fosse colpa mia, del mio abbigliamento, della mia naturale fiducia verso gli altri.
Solo dopo, e sono passati mesi, ho realizzato che no, non avevo fatto niente di male, che non avevo nessuna responsabilità in quella situazione, che non avevo provocato ma avevo subito. Credo che in noi donne sia totalmente interiorizzato il senso di colpa. È come se partisse con il pilota automatico: pensi sempre di aver fatto o detto qualcosa di troppo.

Tamara Viola è una beauty digital strategist. Due anni fa ha lanciato su instagram l’hashtag #TruccoAggraziato invitando le persone a condividere i propri rituali di make up che hanno un effetto benefico sull’umore e fanno sentire più potenti.


Uomini che spiegano cose

Stavo conducendo un evento alla Triennale di Milano e parlavamo di body shaming. Eravamo tutte donne, attiviste, giornaliste, una ricercatrice in sociologia digitale, una collega laureata alla Columbia University e poi un uomo, un conduttore tv anche molto noto, che ha pensato bene di farci una lezione sul femminismo. Cioè lui, in mezzo a quattro donne, ci ha spiegato in un evento pubblico con tanto di slide quali dovrebbero essere i nostri modelli di riferimento, ci ha raccontato la storia della rappresentazione di genere nei media e altre importanti nozioni su cui forse pensava ci mettessimo a prendere appunti.

Mi è venuto in mente il libro di Rebecca Solnit "Gli uomini mi spiegano cose": la sopraffazione non passa solo per la violenza fisica, l’umiliazione o la dipendenza economica ma anche da meccanismi come questi. In pubblico mi sono morsa la lingua e ho evitato di rispondergli male ma dopo me ne sono pentita amaramente.
Era a tutti gli effetti “mansplaining” ma la cosa interessante è che il pubblico era imbarazzato per lui, per il suo comportamento e la sua mancanza di rispetto nei nostri confronti. Segno che la sensibilità della gente su questi temi sta cambiando, insieme alla nostra corazza. Semmai dovesse succedermi di nuovo, so bene come comportarmi e più che mordermi la lingua, la farei mordere a lui.

Corinna De Cesare, giornalista del Corriere della Sera, ha fondato la newsletter thePeriod che parte dal concetto del ciclo mestruale per abbattere tutti i tabù (non solo quelli femminili).



Quella che non sa stare allo scherzo

"Con quella bocca puoi dire ciò che vuoi". È la frase con cui mi ha congedato uno dei docenti del mio dipartimento, all’università, davanti a tutto il collegio di dottorato riunito. Avevo appena terminato la mia relazione annuale sui progressi della mia ricerca.
Non cito questa frase perché è la peggiore umiliazione che abbia mai subito né perché sia ambigua, c’era davvero poco da fraintendere. Né penso che il mio professore abbia avuto il minimo dubbio che le sue parole potessero suonare altro che la galanteria di un, come lui stesso si definiva, anziano gentiluomo del Sud verso una sua stimata allieva. Chi mai, immagino fosse la sua linea di pensiero, potrebbe offendersi sentendosi dire che, oltre che stimata, è anche belloccia? È successo più di dieci anni fa, nessuno dei numerosi presenti ha fatto una piega.
Se ci ripenso ogni tanto credo sia perché è diventato per me un caso ormai cronicizzato di esprit de l’escalier, il disappunto di non aver trovato sul momento una reazione adeguata – quella battuta spiritosa e devastante con cui avrei a mia volta messo in imbarazzo il mio interlocutore senza però passare per ‘quella che non sa stare allo scherzo’. Ci penso ma al tempo stesso so che non ha senso rimuginare. È così che riconosci quando la partita è truccata: la mia non-reazione non andava bene, ma nessuna reazione sarebbe andata bene, la figura della povera stronza l’avrei in ogni caso fatta io.
E poi mi torna in mente una frase di James Baldwin: “Fintanto che sto qui a lamentarmi della mia oppressione, l’oppressore può consolarsi nella certezza che conosco il mio posto”. Baldwin era afroamericano, omosessuale, ha scritto libri meravigliosi e per tutta la vita ha combattuto contro la discriminazione. Penso spesso alle sue parole, le sento vere e allo stesso tempo non ho idea di come applicarle, come tramutarle in una pratica efficace. Non lo so ancora, ma ci penso.

Flavia Gasperetti, traduttrice e storica contemporanea, ha pubblicato da poco il saggio Madri e no, che indaga la complessità delle scelte personali delle donne che decidono di (e di non) riprodursi.


Doppio standard

Ci sono innumerevoli episodi che tutte noi potremmo raccontare, nella banalità del quotidiano viviamo una serie di esperienze delle quali faremmo volentieri a meno. Mi viene subito in mente quando un giorno in un negozio un commesso mi ha rivolto una frase che secondo lui era un complimento ma in realtà era palesemente una molestia. Poi però penso anche a situazioni meno invasive come quando cammino in montagna o faccio una pedalata e mi sento dire "ma che brava!" da uomini che incontro sul mio tragitto mentre anche loro fanno sport. Avete mai visto un uomo che incontra un ragazzo e si complimenta con lui dicendogli bravo mentre svolge una banalissima attività? Io mai.
In quei contesti volevo essere solo una persona che faceva acquisti in un negozio o che passeggiava nella natura, invece mi hanno fatta sentire oggettivata oppure stranamente capace di fare una cosa banalissima come l'attività sportiva per il semplice fatto di essere donna. Quel giorno però è stato speciale, mentre mi trovavo in quel negozio ho deciso di reagire, di non restare più in silenzio sperando che l'imbarazzo terminasse il prima possibile. La frase che mi era stata rivolta era volgare e invadente. Era arrivato il momento di alzare la testa senza distogliere lo sguardo e rispedire al mittente quel comportamenti inappropriato. Inutili sono stati i tentativi del mio interlocutore di far apparire quelle sue frasi come degli apprezzamenti, perché dopo anni ero finalmente pronta a difendermi senza paure o esitazioni. Da quel giorno dico sempre le cose come stanno e ultimamente ho iniziato anche a ricamarle sui miei "Ricami Ri-belli".

Francesca Bresciani da sempre attenta a temi di ingiustizia sociale è attivista dell'associazione antispecista Essere Animali, ha pubblicato un libro di ricette vegane Happy Vegan Kitchen e crea i ricami femministi fatti a mano che trovi in questo articolo. Seguila su Instagram @cescaqb_ricami_ribelli.

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