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Lunedì 13 luglio
editorialistadi Michele Farina
Quando potremo raccontare il mondo senza il filtro del Covid? Sicuramente non oggi. Nel menù della newsletter trovate molte storie che hanno a che fare con la pandemia (compresa quella di un condannato a morte e della nonna della sua vittima). Persino Donald Trump si è deciso a indossare la mascherina (dopo mesi di tira e molla), mentre il Messico ha superato l'Italia nella triste classifica dei morti da coronavirus e a livello globale si è toccato un nuovo record di contagi nelle 24 ore. Una luce arriva da Hong Kong, dove oltre 600 mila persone hanno sfidato la paura mettendosi in coda per un voto che profuma ostinatamente di libertà.

Buona lettura.

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1. In Florida crescono panico e decessi, a New York primo giorno senza vittime
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Due persone in scooter e mascherina su Ocean Drive, a Miami Beach (Ap Photo/Lynne Sladky)
editorialista
di Massimo Gaggi

Ben 15.300 casi di Covid-19 in un solo giorno: ieri la Florida ha segnato un nuovo record assoluto (New York nei peggiori giorni della pandemia, ad aprile, era arrivata a 11.571). Si può fare un impietoso confronto tra Ron DeSantis, portabandiera dei governatori trumpiani, elogiato dal presidente per aver «sfidato virilmente» la pandemia riaprendo prematuramente la Florida e le sue spiagge, mentre a New York Andrew Cuomo era stato criticato dalla Casa Bianca per il prolungato lockdown. In Florida crescono il panico e anche i decessi (45), ieri New York, oltre a registrare un continuo calo dei contagi, ha tagliato un altro traguardo: il primo giorno senza nemmeno un morto di Covid in tutto lo Stato.

  • Dopo quelle dell’Arizona, della California e del Texas (dove gli ospedali sono allo stremo: a Houston sta arrivando una task force ospedaliera dell’esercito), siamo, dunque, all’emergenza Florida: un caso esplosivo con una rilevanza politica particolare perché è qui, nello Stato dell’amico DeSantis, che Trump ha deciso di trasferire al convention repubblicana di agosto, visto che nella sede originaria, in North Carolina, le autorità avevano chiesto di prendere precauzioni sanitarie che il presidente non era disposto ad accettare. E che aveva dipinto come una sorta di ostruzionismo democratico per depotenziare la cerimonia della sua incoronazione da parte del mondo conservatore.
  • Ma, con la Florida devastata dal coronavirus, le autorità di Jacksonville, che un mese fa avevano accolto con entusiasmo la decisione del partito repubblicano di trasferire qui la convention, ora sono terrorizzate. E, anche se Trump fin qui è andato avanti come se nulla fosse minimizzando la gravità della crisi, gli stessi strateghi della sua campagna elettorale cominciano ad avere forti dubbi sull’opportunità di organizzare una kermesse politica tradizionale durante la quale tutta l’attenzione dei media sarebbe sui rischi sanitari anziché sul messaggio politico.
  • Con il rischio di avere nelle settimane successive — quelle finali della campagna — uno stillicidio di racconti di tutti quelli che si sono ammalati durante l’evento. Alla fine, però, a decidere sarà Trump che ha cancellato la convention di Charlotte perché lì le autorità (democratiche) avevano chiesto di riempire solo per metà i 19 mila posti dell’arena e di imporre ai partecipanti la mascherina. Ma oggi anche in Florida c’è l’obbligo di non utilizzare più del 50 per cento dei posti negli eventi pubblici, mentre il sindaco (repubblicano) di Jacksonville ha reso le mascherine obbligatorie. Ora il partito cerca almeno di convincere il presidente a ridurre all’osso il programma della convention e a pronunciare il suo discorso di accettazione all’aperto per limitare i rischi di contagio. Il tempo stringe: mancano 40 giorni all’evento e la costruzione dei palcoscenici richiede settimane. Trump è consapevole dei rischi ma non vorrebbe rinunciare all’effetto della sala zeppa e osannante con la pioggia di palloncini e coriandoli.

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2. Niente carcere per Roger Stone, l’amico salvato da Trump
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Roger Stone il 20 febbraio 2020, giorno della sentenza (foto AP Photo/Manuel Balce Ceneta)
editorialista
di Giuseppe Sarcina
corrispondente da Washington

Donald Trump ha commutato la pena di Roger Stone, suo consigliere e sodale di vecchia data. Stone avrebbe dovuto scontare 40 mesi di carcere per sette reati, tra i quali falsa testimonianza, corruzione di un testimone e ostruzione alle indagini del Congresso. Non farà neanche un giorno di galera. Trump lo ha salvato in extremis, usando i poteri che gli sono riconosciuti dalla Costituzione, come ha confermato una sentenza della Corte Suprema.

  • Il presidente ha usato questa facoltà solo 11 volte; Obama, nei suoi otto anni di mandato, ben 1.715. Eppure la decisione di Trump ha sollevato una polemica molto aspra, attenuata solo dall’emergenza Covid. Tanto che è tornato a farsi sentire persino Robert Mueller, il Super procuratore che ha condotto l’inchiesta sul Russiagate ed era sparito dalla scena pubblica dopo le audizioni al Congresso dello scorso anno. Mueller ha scritto un articolo sul Washington Post, ricordando la sponda offerta da Stone alle manovre del Cremlino per interferire nelle elezioni presidenziali del 2016.
  • I servizi segreti americani sono convinti che la minaccia russa resti viva, ora che si avvicina la parte finale della campagna 2020. Mueller aveva sollecitato il presidente a prendere provvedimenti. Trump, invece, ha preferito demolire quanto gli investigatori hanno scoperto finora, liberando e, soprattutto, riabilitando Roger Stone.

3. Donald e la saga delle mascherine
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Donald Trump arriva al Walter Reed Medical Center di Bethesda, Maryland, indossando la mascherina (Foto Epa/Chris Kleponis / Pool)
editorialista
di Andrea Marinelli

Sulla mascherina, per mesi, si è combattuta una guerra culturale negli Stati Uniti . Da una parte c’erano i democratici, disposti a sacrificare le libertà personali per limitare la diffusione del coronavirus; dall’altra gli ultraconservatori che si sono battuti per difenderle, perché su quelle libertà si fondano gli Stati Uniti: quella di lavorare, ma anche quella di muoversi o scegliere cosa indossare. A cominciare dalla mascherina appunto, diventata una dichiarazione di affiliazione politica. Fin dall’inizio della pandemia, in trincea con i secondi c’era il presidente Trump, che finora si era sempre rifiutato di indossarla perché, disse, «non si addice a un leader». Ecco un breve riassunto del mascherina-pensiero del presidente.

  • 3 aprile: durante una conferenza stampa, Trump annuncia le nuove linee guida dei Centers for Disease Control and Prevention che suggeriscono l’uso della mascherina, ma dichiara che lui non la indosserà. «Non penso che io lo farò», afferma.
  • 5 maggio: Trump si rifiuta di indossare la mascherina durante la visita in una fabbrica che le produce, la Honeywell, in Arizona. Secondo un articolo dell’Associated Press, il presidente avrebbe detto ai suoi consiglieri di non voler «apparire ridicolo in televisione».
  • 20/21 maggio: prima di una visita in una fabbrica Ford in Michigan, il procuratore generale dello Stato invita il presidente ad attenersi alle leggi e indossare la mascherina. Trump si rifiuta di farlo in pubblico — «Non è necessario, ho fatto il test», dice — ma poi viene fotografato all’interno dello stabilimento con la mascherina sul volto, come imposto dall’ad della casa automobilistica. «Non volevo dare alla stampa la soddisfazione di vedermi», dirà in seguito.
  • 25 maggio: il presidente rilancia un tweet del giornalista di Fox News Brit Hume, in cui appare il rivale Joe Biden con indosso la mascherina alla sua prima uscita pubblica dopo il lockdown. «Questo potrebbe spiegare perché Trump non vuole indossare la mascherina in pubblico. Biden oggi». Tradotto: non vuole sembrare uno sfigato come il suo rivale.
  • 26 maggio: durante una conferenza stampa nel giardino delle rose della Casa Bianca, Trump accusa un giornalista di Reuters con la mascherina sul volto di essere «politicamente corretto» e aggiunge: «Puoi toglierla? Non ti sento». Lui risponde: «Parlerò più forte».
  • 28 maggio: il presidente condivide il tweet di un commentatore conservatore del sito The Federalist, per il quale l’obbligo di indossare la mascherina riflette «una cultura del silenzio, la schiavitù, la morte sociale». Nell’articolo si legge che la mascherina è antiamericana ed è «un segno dell’espansione senza limiti del Governo».
  • 18 giugno: in un’intervista al Wall Street Journal, il presidente sostiene che alcuni americani indossino la mascherina non per proteggere se stessi e gli altri, ma per mostrare la propria disapprovazione nei suoi confronti.
  • 11 luglio: durante una visita all’ospedale militare Walter Reed di Bethesda, Maryland, Trump indossa per la prima volta la mascherina in pubblico. «Mi piacciono le mascherine, quando le indossi nei luoghi appropriati», ha detto ai giornalisti presenti alla Casa Bianca prima dell’evento, spiegando che in un ospedale è meglio farlo.

4. Vittime del coronavirus, il Messico «supera» l’Italia
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Un’inserviente misura la temperatura di un cliente nel centro commerciale del quartiere Polanco, a Città del Messico (foto Pedro Pardo/ Afp)

(di Francesco Giambertone) Il Messico supera l’Italia nella (triste) classifica dei Paesi con più decessi per coronavirus, raggiungendo il quarto posto al mondo: con i 276 morti di domenica, il Paese latinoamericano tocca quota 35 mila. Il presidente Manuel López Obrador sostiene che il virus stia «perdendo intensità» e attacca i media «allarmisti», eppure la curva messicana è in crescita: sono morte più persone per Covid-19 soltanto negli Usa (oltre 135 mila), in Brasile (71 mila) e nel Regno Unito (44 mila).

  • Si aggiorna anche il record di contagi in un solo giorno a livello globale: per l’Oms nelle ultime 24 ore i nuovi infetti registrati in tutto il mondo sono più di 230 mila (superando il record di venerdì, e in parte c’entra il numero di tamponi in crescita un po’ dappertutto). A trainare in alto i numeri dei nuovi casi sono gli Stati Uniti, il Brasile, l’India e il Sudafrica: qui il governo ha reintrodotto il divieto di vendere alcolici, per ridurre le occasioni di baldoria (e quindi di contagio). Dall’inizio della pandemia, nel mondo si contano 12,9 milioni di infetti e 568 mila morti.

5. L’isola contesa: Mauritius contro il gigante anglo-americano
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L’isola di Diego Garcia, territorio della Gran Bretagna nell’Oceano Indiano
editorialista
di Guido Olimpio

Diego Garcia, Oceano Indiano. Un’isola dall’importanza strategica e al centro di una disputa. La Gran Bretagna, che ne ha il controllo, l’ha trasformata in una base usata dagli aerei americani. È un punto fisso di molte operazioni. Solo che il territorio, parte dell’arcipelago di Chagos, è rivendicato dal governo di Mauritius, che sostiene di averlo dovuto barattare nel 1965 in cambio dell’indipendenza. E infatti l’Onu ha dato ragione al piccolo Stato.

  • Gli inglesi dovrebbero lasciarla, però non ci pensano proprio, ed hanno avuto l’appoggio degli Stati Uniti. Da Mauritius — come segnala il sito Defense One — hanno rilanciato: se ne torniamo in possesso siamo disposti ad affittarla agli Usa per 99 anni. Dunque il Pentagono non perderebbe la postazione. L’offerta sulla carta non ha commosso Washington, sempre saldamente ancorata al patto con Londra. Nulla di sorprendente, l’asse è storico. Anche se i commentatori sottolineano come questa linea contrasti con quella assunta dagli Usa in altre contese, ad esempio quelle che impegnano la Cina con i suoi vicini. Ma questa, come direbbe qualcuno, è un’altra storia.

6. Texas in bilico, i democratici ci credono
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Una manifestazione di ispanici per Biden (Epa/Cristobal Herrera-Ulashkevich)

(di Andrea Marinelli) Erano anni che i democratici puntavano al Texas, auspicandosi che il rapido cambiamento demografico facesse sfumare lo Stato da un solido rosso repubblicano al blu progressista. Sulle minoranze che minoranze più non sono — in particolare gli ispanici, cresciuti fra il 2010 e il 2017 del 18% — gli strateghi democratici incentravano un’ambiziosa scommessa elettorale a lungo termine: conquistare il Texas e i suoi voti elettorali, che sono 38 sui 270 necessari a ottenere la presidenza, secondo solo alla progressista California.

L’ultimo democratico a vincere da queste parti fu Jimmy Carter nel lontano 1976, ma la combinazione Trump + coronavirus potrebbe però aver velocizzato il processo: secondo l’ultimo sondaggio CbsNews/YouGov, Trump avrebbe un vantaggio di un solo punto, sotto il margine di errore, e questo metterebbe di fatto il Texas fra gli Stati in bilico. Il dato è confermato, più o meno, da tutti gli altri sondaggi, che danno Trump o Biden avanti di un soffio. «Le cose possono cambiare», sostengono gli analisti di Cnn Politcs, ma «a questo punto della campagna possiamo considerare il Texas in bilico».

Di certo, i democratici ora ci credono e stanno spingendo Biden a essere più ambizioso e a fare una campagna aggressiva non solo in Texas, ma anche in Georgia, due roccaforti conservatrici che in genere vengono tralasciate dai democratici. Nel 2020, però, tutto è diventato possibile. La sintesi l’ha fatta al New York Times Marc Veasey, deputato del distretto di Forth Worth: «È il momento migliore per vincere il Texas dai tempi di Jimmy Carter».

7. Il Covid per fermare la condanna a morte: la battaglia dei parenti delle vittime
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Daniel Lewis Lee, la cui condanna a morte verrà eseguita oggi se non interverrà la Corte Suprema

(di Andrea Marinelli) Una sentenza della Corte d’appello del Settimo circuito ha sgomberato la strada per l’esecuzione di Daniel Lewis Lee, la prima condotta a livello federale negli ultimi 17 anni. A opporsi non era il detenuto — condannato per aver ucciso una famiglia di tre persone nel 1996 insieme a un complice — ma i parenti delle vittime che, pur di rimandare l’iniezione letale, prevista per stasera in Indiana, avevano sostenuto di non poter assistere alla sua morte a causa del coronavirus.

  • «Non c’è nessuna base legale», ha risposto però la corte, con sede a Chicago, spiegando che non esiste uno statuto federale che concede alle vittime il diritto di assistere all’esecuzione. L’ultima speranza ora la Corte Suprema, che però dovrà intervenire entro le 21 italiane.
  • Lee, 47 anni, era un suprematista bianco che nel 1996 torturò e uccise una coppia e la loro figlia, gettando i corpi in un lago. A opporsi alla sua esecuzione è sempre stata Earlene Peterson, nonna materna della bambina, oggi 81enne, per la quale il colpevole dovrebbe passare il resto della vita dietro le sbarre, come il suo complice. «Daniel Lee ha distrutto la mia vita, ma non penso che prendersi la sua cambierebbe qualcosa», ha affermato Peterson.
  • Oltre alla questione personale, ce n’è anche una politica. Lo scorso anno, l’amministrazione Trump ha annunciato che avrebbe ripreso le esecuzioni federali dopo quasi vent’anni: l’ultima, nel 2003, fu quella di Louis Jones Jr., un veterano della Guerra del Golfo condannato per aver ucciso la soldatessa Tracie Joy McBride nel 1995. Nonostante – dopo una doppia sentenza della Corte Suprema – la pena di morte sia tornata legale a livello federale dal 1988, le esecuzioni finora sono state piuttosto rare.
  • Secondo i dati del Death Penalty Information Center, 78 persone hanno ricevuto una condanna a morte a livello federale fra il 1988 e il 2018, ma soltanto 3 sono state poi effettivamente portate a termine. In attesa, nel braccio della morte federale, ci sono oggi 62 detenuti: oltre a Lee, altri tre — tutti condannati per aver ucciso bambini — dovrebbero ricevere l’iniezione letale durante l’estate.

8. La «vendetta» di un autista a Guizhou
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L’autobus a bordo del quale sono stati uccisi 21 studenti cinesi
editorialista
di Guido Santevecchi
corrispondente da Pechino

La tragedia di un autobus carico di ragazzi cinesi che tornavano dal liceo dopo l’esame di maturità, martedì scorso, ha meritato cinque righe in cronaca sulla stampa di Pechino (il Corriere ha fatto di più: la foto drammatica del bus finito in un lago e il titolo «Morti 21 studenti»). Solo oggi abbiamo saputo quello che la polizia cinese aveva accertato quasi subito: i ragazzi sono stati uccisi deliberatamente dall’autista.

  • Ma la cronaca sulla stampa cinese resta fredda come un’autopsia. Martedì 7 luglio: la casa di un autista di autobus nella provincia cinese di Guizhou è da tempo nella lista di quelle da abbattere per far posto a un nuovo piano di sviluppo, moderno. Il 7 è il giorno fissato per la demolizione. Al proprietario è stato concesso un risarcimento di 72 mila yuan (10 mila euro), ma lui non è soddisfatto, anche perché non gli è stato assegnato un nuovo alloggio. Aveva protestato per mesi il conducente Zhang, 52 anni, divorziato.
  • L’ultima telefonata al numero verde dei casi socialidel suo villaggio proprio la mattina del 7. Prendono nota, ma le ruspe sono già pronte a spianare. Allora Zhang, che non sarebbe di turno, chiede a un collega il cambio. Alle 9.04 compra una bottiglia di baijiu, grappa di sorgo, la versa nel thermos del tè, sale sul suo bus e comincia il servizio... (trovi il resto della storia sul sito del Corriere: in Cina questi casi vengono catalogati come «baofu shehu», «vendetta sulla società». Storie che a ben guardare ricordano le stragi negli Stati Uniti: solo che quelle finiscono nei tg di tutto il mondo e ogni volta riparte la polemica perché gli americani sono armati fino ai denti).

9. Diritti transgender, c’è un giudice a Pechino
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(di Guido Santevecchi) Una «decisione epica». Così gli avvocati definiscono la sentenza di un tribunale di Pechino a favore di Gao, impiegata transgender della piattaforma di ecommerce Dangdang. Gao era dal 2015 product manager dell’azienda. Nell’estate del 2018 decise di affrontare un intervento di «riassegnazione chirurgica di genere». Ottenne due mesi di aspettativa e dopo la convalescenza si ripresentò in ufficio. Ma trovò una lettera di licenziamento per «assenza dal lavoro» e «disordine mentale».

  • La signora Gao si rivolse alla giustizia. Dangdang obiettò che la sua presenza sarebbe stata una «distrazione» per i colleghi, i quali si sarebbero sentiti «a disagio, imbarazzati», anche «terrorizzati» dall’idea di incontrarla in bagno: non la volevano né nella toilette delle donne né in quella degli uomini. Ci sono giudici adeguati ai tempi anche in Cina. Hanno dato ragione alla dipendente transgender imponendo la riassunzione, la liquidazione degli arretrati e l’ammissione nel bagno delle signore.
  • La corte di Pechino ha dichiarato: «Noi rispettiamo e difendiamo la comunità transgender nella Repubblica popolare, la società diventa sempre più diversa, impariamo a conoscere e accettare queste diversità gradualmente, a meno che non ci minaccino». Un sondaggio della rivista finanziaria Caixin nel 2017 ha rilevato tra la comunità transgender cinese un tasso di disoccupazione all’11,8 per cento, il triplo del 3,9% ufficiale nelle aree urbane.

10. Hong Kong conta (almeno) 610 mila eroi
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il cardinale emerito Zen in attesa di votare

(di Guido Santevecchi) La polizia di Hong Kong ha compiuto una perquisizione nel quartier generale dell’opposizione venerdì notte, prima dei due giorni di primarie per la selezione dei candidati democratici alle elazioni del Legislative Council in programma il 6 settembre. L’intimidazione dell’ultimo minuto, resa possibile dalla nuova Legge sulla sicurezza nazionale cinese, non ha fermato circa 610 mila cittadini.

  • Si sono messi in coda davanti ai seggi non ufficiali aperti in 250 negozi, sotto tende in strada, anche in un vecchio autobus dismesso. Il risultato è un segno di sfida della città: 610 mila partecipanti alle primarie rappresentano un settimo dei 4,5 milioni di elettori registrati nel territorio. «Il popolo di Hong Kong ha fatto un miracolo» ha detto il professor Benny Tai, vecchio promotore del Movimento degli Ombrelli nel 2013. La stampa di Pechino non ha commentato la sfida delle primarie, dando invece risalto ai 38 casi di Covid-19 accertati domenica a Hong Kong e promettendo il sostegno del governo centrale. Il Quotidiano del Popolo il 9 luglio ha dedicato un editoriale all’inaugurazione del Bureau cinese per l’applicazione della legge di sicurezza nazionale a Hong Kong: 300 funzionari di intelligence insediati in un ex albergo. Ma gli agenti nella loro torre non hanno potuto evitare la mobilitazione antigovernativa di 610 mila cittadini.

11. La rinascita di WeWork (grazie anche alla pandemia)
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Marcelo Claure, leader di WeWork
editorialista
di Danilo Taino

Piaccia o meno, il lavoro a distanza – da casa o da altrove – sembra mettere radici, grazie alla pandemia. Questa mattina, il Financial Times riporta della possibile rinascita di una società che sembrava ko fino a poco tempo fa, rilanciata dalla richiesta di spazi di lavoro fuori dalle aziende. WeWork è stata, mesi fa, al centro di un crollo straordinario, con una capitalizzazione passata da 47 miliardi di dollari a inizio 2019 a 2,7 miliardi lo scorso marzo. Il suo business è l’affitto di spazi per ufficio agli individui e alle aziende: aveva esagerato nell’espansione, comprato troppe proprietà, si era indebitata eccessivamente ed era entrata in crisi.

  • Durante la crisi da virus, però, la richiesta di spazi di lavoro è andata «oltre il soffitto», ha fatto sapere, al punto che WeWork pensa di ottenere un cash flow positivo già l’anno prossimo (dopo una forte ristrutturazione). Succede che molte persone hanno affittato stanze per uno o più giorni la settimana in quanto la loro azienda li ha invitati a operare in homeworking ma a casa faticavano a trovare l’ambiente giusto. Soprattutto, alcune società hanno affittato spazi da WeWork per decentrare i loro dipendenti e garantire il distanziamento di sicurezza: il mese scorso lo hanno fatto Mastercard, Citigroup, Microsoft, ByteDance (TokTok).
  • La rinascita di WeWork è indice concreto del cambiamento nel modo di lavorare accelerato dalla pandemia. Uno studio del prestigioso centro di ricerca tedesco Ifo di Monaco, pubblicato stamattina, sostiene che il 54% delle imprese tedesche intende mettere il lavoro da casa (o comunque da lontano) su basi permanenti. Per molte aziende – dice lo studio – organizzare l’homeworking ha significato realizzare investimenti sostanziali in digitalizzazione e nuove tecnologie di comunicazione, le quali ormai ci sono e verranno utilizzate.
  • Se la tendenza sarà confermata, il cambiamento del lavoro, del suo lato di socializzazione, e il vissuto del lavoratore cambieranno radicalmente. Così come i rapporti sindacali e la creatività, più difficile per individui isolati. Non poco. Soluzioni come quelle di WeWork potrebbero però creare nuovi modelli di collaborazione tra diverse attività, con vantaggi per l’innovazione.

12. Addio pellerossa
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Il merchandising dei Washington Redskins in vendita in un negozio di articoli sportivi (foto Drew Angerer/Getty Images/Afp)

(di Francesco Giambertone) Mai più «Pellerossa». I Washington Redskins, storica squadra di football americano della capitale, cambiano nome dopo 87 anni: quella parola, considerata un’offesa da un’ampia fetta della comunità dei nativi americani, era dibattuta da quasi mezzo secolo. Ci è voluto il movimento Black Lives Matter, una rinnovata attenzione per i diritti delle minoranze e il rischio di perdere molti soldi a far decidere la franchigia per il cambio, annunciato dalla società a inizio luglio «alla luce dei recenti avvenimenti nel nostro Paese e nella nostra comunità».

  • Forse è solo l’inizio: potrebbe presto toccare agli Indians di Cleveland nel baseball, ai Blackhawks di Chicago nell’hockey, e parecchi altri. Da oggi il nickname Redskins è ufficialmente ritirato, in attesa che la società comunichi quello nuovo (entro un paio di settimane). Scelta etica sì, ma soprattutto di business: pesa tanto la pressione degli sponsor, spaventati dai rischi di investire su un brand percepito come razzista in un momento come questo. FedEx aveva minacciato di ritirare il nome dello stadio, e la vagonata di milioni a esso connessi, mentre Nike e Amazon avevano tolto il merchandising della squadra dai propri store online.
  • Di fronte al potere dei soldi il proprietario Daniel Snyder, che per anni aveva giurato di non cambiare il nome del team, ha ceduto. Anche il logo sarà cambiato: niente più immagine dell’«indiano d’America» (altra definizione offensiva inventata dai bianchi, convinti di essere arrivati in India nel 1492). Sul nome della squadra di football della capitale si erano affrontati già nel 2013 Barack Obama, che da inquilino della Casa Bianca suggerì al presidente della franchigia di sostituire il nome, e Donald Trump, che su Twitter all’epoca bollava la questione come «nonsense», e ora ironizza sulla smania del «politicamente corretto». Il nuovo nome potrebbero però piacergli: pare onorerà in qualche modo l’esercito.

13. Calcio femminile, record di ascolti (senza Megan)
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Natalie Jacobs delle Washington Spirits inseguita da Meghan Klingenberg delle Portland Thorns (foto Alex Goodlett / Getty Images / Afp)
editorialista
di Arianna Ravelli

Se da noi Sara Gama e le altre ragazze hanno deciso di non far ripartire il campionato, e se sempre da noi l’abbuffata di calcio della serie A sta affrontando un preoccupante calo di spettatori, dagli Usa arriva un doppio segnale opposto. Il calcio femminile, il primo sport professionistico di squadra a riprendere, sta battendo tutti i record di ascolti e di interesse. La prima giornata, il 27 giugno, ha triplicato il record di audience della Lega, nonostante l’assenza delle due stelle Alex Morgan e Megan Rapinoe.

È chiaro, la mancanza di pubblico ha colpito anche i club femminili Usa (i Portland Thorns pre-Covid avevano una media di spettatori di 19mila a partita, il più alto del mondo), ma la crisi non solo trova un movimento sanissimo, ma può essere usata come un’opportunità per sfruttare la mancanza di competizione con gli altri sport ancora fermi. È quello che sembra stia succedendo.

Il calcio femminile negli Usa (oltre a essere fonte di successi per la Nazionale campione del mondo) è infatti un business sempre più attrattivo: la neo commissioner della Lega Lisa Baird (che al suo secondo giorno di lavoro, a marzo, ha dovuto fermare il campionato) è riuscita ad aggiungere tre sponsor (Procter and Gamble, Google e Verizon) e il gruppo dell’Olympique Lione ha appena acquistato il team di Seattle per 3,15 milioni.

Una crescita che — è l’augurio di tutti — dovrebbe aiutare a migliorare gli stipendi delle calciatrici, perché la battaglia di Rapinoe e compagne per ottenere la parità di salari con gli uomini è pronta a ripartire assieme alle partite.

Grazie di averci seguito. A domani. Cuntrastamu.
Michele Farina


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