11 luglio 2020 - 12:52

La «misteriosa polmonite» che fa litigare la Cina e il Kazakistan

Pechino ha diramato un’allerta su un aumento significativo di casi di una malattia sconosciuta. Ma Nursultan smentisce: «Sono contagi da coronavirus non identificati». In aumento le tensioni politiche ed economiche tra i due Paesi

di Marta Serafini

La «misteriosa polmonite» che fa litigare la Cina e il Kazakistan
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In tempi di epidemie, succede che una misteriosa polmonite faccia litigare la Cina e il Kazakistan. Il botta e risposta è iniziato dopo che l’ambasciata cinese nel Paese centro-asiatico ha lanciato un alert su un «significativo aumento» di casi di polmonite sconosciuta e definita più letale del Covid-19 in tre città del Paese.

Affermazioni gravi, soprattutto alla luce delle accuse rivolte agli Stati dell’Asia centrale sulla sottostima dei contagi. I casi da nuovo coronavirus in Kazakistan sono aumentati di più di cinque volte dopo che a maggio il governo ha deciso di togliere le restrizioni e dal 5 luglio è stato imposto un nuovo lockdown per frenare l’epidemia. Una nuova polmonite dunque sarebbe un’ulteriore sciagura per tutta la regione, soprattutto se non controllata. Ma l’ex presidente kazako Nursultan, tutt’ora leader de facto del Paese e risultato positivo al Covid-19 — non ci sta e bolla l’allarme di Pechino con un secco «fake news».

Tutto ha inizio quando due giorni fa sul canale WeChat della sede diplomatica cinese, comprare un messaggio che indica tre focolai diffusisi dalla metà di giugno nelle città di Atyrau, Aktobe e Shymkent. Si tratta di una polmonite non identificata — avverte Pechino — con un tasso di mortalità «molto più alto di quello del nuovo coronavirus». Poi i numeri. Secondo quanto riportato dalla sede diplomatica cinese, nella prima metà del 2020 si sono verificate 1.772 morti per polmonite nel Paese, 628 delle quali il mese scorso, e tra i decessi ci sono anche quelli di cittadini cinesi in Kazakistan.

Secondo Nursultan — così ora si chiama anche la capitale Astana, ribattezza in onore dell’ex presidente — si tratterebbe di casi di Covid-19 non diagnosticati. «Le informazioni pubblicate da alcuni media cinesi su un nuovo tipo di polmonite in Kazakistan non corrispondono alla realtà». I casi di polmonite «non specificata», aggiunge, sarebbero in linea con i parametri utilizzati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per definire la malattia nel caso in cui l’infezione da coronavirus sia diagnosticata clinicamente o epidemiologicamente, ma non confermata dai test di laboratorio. Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha gettato acqua sul fuoco e da Ginevra il responsabile del programma emergenze, Mike Ryan, ha sottolineato che la situazione è «sui radar» dell’Oms e soprattutto che «la traiettoria in salita del Covid-19» in Kazakistan «suggerisce che molti di questi casi siano in realtà casi di Covid-19 non diagnosticato». Il tutto mentre la stessa Pechino ha poi fatto marcia indietro, con il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Zhao Lijian, che ha tranquillizzato «aspettiamo di apprendere maggiori informazioni e spera di lavorare assieme al Kazakistan per combattere l’epidemia e salvaguardare la salute pubblica in entrambi i Paesi».

Lo scambio va letto anche alla luce dei rapporti economici tra i due Paesi. Nonostante la Cina sia un partner economico fondamentale per il Kazakistan, PetroChina ha infatti annunciato la sospensione delle importazioni di gas naturale dall’Asia centrale, con Kazakhstan e Turkmenistan che sono i principali fornitori. Ma non solo. Violenze sono scoppiate lo scorso 7 febbraio fra cittadini kazaki dei villaggi di Masanchi, Sortobe, Auqatty e Bulan-Batyr, nei pressi del confine col Kirghizistan, e dei dungani, un gruppo etnico musulmano di origine cinese. Iniziate all’apparenza a causa di un incidente stradale, le violenze hanno provocato undici morti, il ferimento di 19 agenti di polizia e il danneggiamento parziale o totale di 30 abitazioni, 17 edifici commerciali e 47 autovetture. Dallo scontro iniziale avvenuto in strada, infatti, l’ondata di rabbia si è diffusa nei centri abitati vicini grazie alla pubblicazione su Internet dei filmati dei primi tafferugli. Infine i rapporti sino-kazaki sono stati inoltre messi a dura prova dalla campagna di de-radicalizzazione delle autorità di Pechino nella provincia dello Xinjiang, un’area in cui, secondo le stime delle Nazioni Unite, oltre un milione di musulmani uiguri si troverebbero in stato di arresto nei cosiddetti campi di rieducazione. Le politiche cinesi hanno colpito anche i kazaki che vivono nello Xinjiang. E nonostante il governo di Nursultan non abbia mai rivolto critiche dirette contro la controparte di Pechino, limitandosi a chiedere che gli uiguri di nazionalità kazaka vengano rilasciati, a livello locale non sono mancate le proteste popolari e una sempre maggiore insofferenza contro l’invasiva presenza cinese.

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