5 luglio 2020 - 10:53

Medico lascia l’ospedale di Alzano: «Già il 15 febbraio un collega disse: questa è Sars-Cov»

Cinque giorni prima del paziente 1 a Codogno il parere su una radiografia a Franco Orlandi, il primo deceduto di Nembro. Si dimette per un mancato accordo con l’azienda: «Voglio andare in Israele a trovare mia madre, contagiata»

di Armando Di Landro

All’interno dell’ospedale di Alzano All’interno dell’ospedale di Alzano
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Più passano i mesi e più si rafforza il dubbio — ripensando all’inizio dell’epidemia nella Bergamasca — che si potessero risparmiare giorni, recuperare tempo contro la corsa del coronavirus. «Il primo paziente di Nembro poi deceduto lo presi in carico io al pronto soccorso di Alzano»: Nadeem Abu Siam, medico palestinese di 29 anni e padre di tre figli, casa a Nembro, era in servizio sabato 15 febbraio. Il caso del paziente 1 a Codogno sarebbe esploso solo 5 giorni dopo. Abu Siam non ha più timore di parlare, si è scontrato negli ultimi giorni con la direzione dell’Emergenza dell’Asst e ha deciso di dimettersi. «Non è stato possibile avere una soluzione per lasciarmi andare a trovare mia madre in Israele, sì, in Palestina, dopo che mi hanno avvisato che aveva la febbre e tutti i sintomi del Covid. L’avrei fatto anche con un permesso non retribuito. Dopo la mia scelta ho ricevuto un messaggio dal direttore dell’Emergenza dell’Asst, mi ha scritto solo che non potrò più rientrare né da dipendente né da libero professionista. Proprio un “vattene” e basta. Fino a maggio, quando mi hanno assunto, ero al lavoro al pronto soccorso da libero professionista (dal 2019), potevo anche andarmene, ma sono rimasto durante tutta l’emergenza, non ho “mollato” nessun paziente, mai».

Nadeem Abu Siam
Nadeem Abu Siam

Torna con il pensiero e gli occhi un po’ lucidi a quel sabato 15 febbraio, Nadeem. «Orlandi mi diceva anche in dialetto ‘go mia ol fiat...’ (non ho il fiato, ndr). Ho chiamato la radiologia e gli ho fatto fare la lastra a letto. Non sono un intenditore ma qualcosa non andava. Quindi ho chiamato un internista di Medicina, esperto. Ha guardato la lastra e ha detto ‘questa per me è sars-cov’. Poi il paziente è andato in reparto». Le informazioni raccolte consentono di ricordare che Orlandi morì il 25 febbraio e che l’esito del tampone eseguito il 23, positivo, arrivò poco dopo il decesso. Eppure l’esame si sarebbe potuto fare molto prima, 8 giorni in anticipo.

Lo snodo decisivo dell’inizio dell’emergenza sta in questa storia e in altre simili. Non si facevano i tamponi, secondo la direzione dell’Asst, perché le circolari del ministero dicevano di non farli in assenza di contatti o rapporti del paziente con la Cina. «Il coraggio di violare i protocolli», come l’ha definito il presidente della Regione Attilio Fontana, aprì le finestre sull’epidemia già in corso grazie all’anestesista di Codogno, il 20 febbraio, rompendo gli argini per tutti.

«Non c’era neanche la preparazione per affrontare tutto, però — racconta Abu Siam —. Il 23 febbraio dovevo fare il turno di notte, fino a lunedì mattina. Alle 17 ero stato chiamato e mi avevano detto “siamo chiusi, non venire nemmeno”. Alle 19, un’altra telefonata, per dirmi di andare al lavoro. Avevano già riaperto. Appena entrato nessuno sapeva cosa fare, il flusso di pazienti era ancora fermo. Fino a quel momento non avevamo mai usato mascherine in modo generalizzato e in tutto avevamo 10 tamponi. Li abbiamo usati sul nostro personale perché si iniziavano a notare anche sintomi tra medici e infermieri: l’ho fatto io al caposala, che poi è stato seriamente colpito dal virus. Per sentito dire, in un altro reparto ce n’erano anche meno quel giorno, di tamponi, i medici se li contendevano».

Dal lunedì 24, iniziarono ad arrivare altri pazienti, martedì i contagiati con residenza a Nembro risultavano già 8, in buona parte già ricoverati ad Alzano da prima di domenica. «Sì ma quei numeri lì erano già indietro rispetto alla realtà — dice Abu Siam —. Dipendevano dai pochi tamponi che potevamo fare, spesso bisognava aspettare che arrivasse il fattorino da Seriate a portarli».

Ciò che gli resta di quell’esperienza, sono soprattutto «pazienti soli, ma anche medici e infermieri se posso dirlo, anche noi lo eravamo. Io ho sentito distanti le varie direzioni, ma può anche essere stata una mia impressione. Quando si è ammalato il caposala, la sua vice ha fatto tutto da sola per separare un minimo le diverse situazioni, il direttore del ps Paolo Longhi, che ringrazierò per sempre per ciò che mi ha insegnato, si ammalò anche lui, ricoverato anche in Terapia intensiva. Abbiamo fatto da soli, uno per uno, tutto ciò che potevamo. Con un paziente di Villa di Serio positivo ma non nelle condizioni di essere ricoverato, abbiamo concordato che l’avrei seguito per telefono. Mi chiamava quando voleva sul cellulare. È guarito, ho provato a non perdere di vista mai nessuno». La famiglia ha poi portato un regalo, a Nadeem.

«In quel periodo anche le solite divisioni tra medici e infermieri non c’erano più — ricorda —. Ivan Mastroianni, il caposala, quando è tornato dopo essere guarito, ha fatto di tutto, ci ha messo l’anima. Si è parlato tanto dell’esercito presente ad Alzano, ma io non ho visto grandissimi interventi. E anche la tenda per il triage separato non l’ho mai vista funzionare, anche se è ancora lì». Si affastellano ricordi e nomi, nella testa di questo padre, giovane medico, con la casa piena di valigie per andarsene. «Proverò a fare il medico là, in Palestina. L’Italia mi ha regalato una moglie e una famiglia, ad Alzano e in questa emergenza ho imparato tanto: me ne vado portandomi dietro questo Paese e tutti i miei colleghi».

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