Intervista

Massimo Osanna: «Riapriamo il Paese e Pompei. Fermare il declino è possibile»

Il direttore del Parco Archeologico, che ha cambiato volto (e numeri), è stato nominato direttore generale dei musei dello Stato

di Paolo Bricco

Ritratto di Ivan Canu

6' di lettura

Sarà Massimo Osanna, già direttore generale del parco archeologico di Pompei, il nuovo direttore generale dei musei dello Stato. Lo ha deciso il ministro dei Beni culturali e del turismo Dario Franceschini. Riproponiamo qui un’intervista pubblicata sul Sole 24 Ore del 21 giugno 2020.

«Il primo giorno della riapertura, il 26 maggio, abbiamo avuto 104 visitatori. L’anno scorso la media era stata di 15mila. Il 2 giugno è andata bene: 1.400 biglietti staccati. Con la fine del divieto di circolazione fra regioni, abbiamo alzato a 5.100 il numero massimo di prenotazioni al giorno. Contiamo di aumentare ancora. Dal ministero dei Beni culturali mi hanno chiesto quanto ci servirà per rimanere in equilibrio finanziario: credo otto milioni di euro. Abbiamo rimandato all’anno prossimo i restauri delle case del facoltoso commerciante Giulio Polibio e degli Epidii, una famiglia della élite pompeiana. Ora, tanto più davanti a questo shock, dobbiamo aumentare i ricavi con le imprese».

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Massimo Osanna, classe 1963, ha la sensibilità filologica dell’archeologo, ma parla come un amministratore delegato: sa bene che gli organismi complessi – insieme culturali e economici – si reggono nell’identità sull’equilibrio fra ricavi reali e trasferimenti straordinari, finanza di impresa e pianificazione strategica.

Osanna è direttore generale del parco archeologico di Pompei, una delle poche realtà che – prima della paralisi mortifera del coronavirus – contraddicevano il senso di ineluttabile sconforto e di pigro declino che, dagli anni Novanta, ha segnato il nostro Paese. Quando è arrivato, nel 2014, i visitatori erano due milioni e mezzo. Nel 2019, sono stati quattro milioni. Adesso, per evitare l’accalcarsi della folla, nel parco sono stati predisposti due percorsi distinti e ordinati.

All’Hortus – a cento metri dalla stazione della Circumvesuviana – tutti lo trattano con la deferenza riconoscente di chi, qui, ha cambiato tutto. E, adesso, gli chiedono lumi: «Come andrà? Ce la faremo, professore? Noi, fra ristorante e albergo, siamo in 45, fra familiari e dipendenti. Se va bene, quest’anno chiuderemo con un terzo del fatturato del 2019. La cassintegrazione ai nostri collaboratori non è mai arrivata», dice con scoramento e dignità il proprietario Gennaro Falanga.

La giornata è mite, la luce è bellissima. Sotto il gazebo, piante di limoni, arance e bergamotti. Sulle tavole tutto intorno a noi, piatti e profumi della cucina campana di terra. Io assaggio la salsiccia con i friarielli, mentre Osanna preferisce la parmigiana di melanzane. I camerieri iniziano a portare “un assaggino di tutto”. «Attento alle porzioni, perché sono abbondantissime», dice Osanna. Osanna è arrivato nel 2014. Allora, formalmente, la carica era di soprintendente. Qui ha trovato il generale Giovanni Nistri, che poi sarebbe diventato, nel 2018, comandante generale dell’arma dei carabinieri. A Pompei, Nistri era già arrivato nel 2012, in una di quelle situazioni di sfacelo che, spesso, fanno dire: «Qui bisognerebbe mandare i carabinieri». Osanna e Nistri – in una Italia abituata ad affidarsi ai demiurghi e agli autocrati – hanno formato una squadra: «Io e Nistri siamo diventati amici. Qui, una volta, succedevano cose indicibili. Lui, con i suoi venti carabinieri e tecnici, ha bonificato tutto. Io e i miei collaboratori abbiamo cambiato dall’interno la macchina. Le due parti del lavoro si sono fuse. Qui nessuno aveva mai fatto manutenzione programmata: ogni settimana crollava un muro. Per due anni, non ho praticamente visto il mio compagno Gianluca. La nostra vita privata era quasi annullata».

Il successo di pubblico dopo la riorganizzazione

Nell’aumento da due e milioni e mezzo a quattro milioni di visitatori, c’è di tutto. In primo luogo, il contrasto al sindacalismo selvaggio: «Io e i sindacati confederali ci siamo misurati e, adesso, ci rispettiamo a vicenda. Con le sigle minori rimane più di un problema. Di certo, la situazione è molto cambiata da quando, al mio arrivo, venivano indette le assemblee alle nove del mattino, per interrompere l’accesso dei visitatori, e io invece facevo aprire lo stesso il sito archeologico».

Alla base della nuova Pompei, si trovano il rifiuto di ogni convivenza con le forme di illecito più opache e multiformi, il riavvio dei lavori negli scavi (fermi dal 1960) e un controllo occhiuto della pulizia e dell’ordine: «A qualcuno questo farà sorridere. Ma, ogni giorno, io conduco una piccola ispezione personale. In un angolo particolare degli scavi, nei punti di accoglienza o nei bagni. Tutto deve essere a posto. A sera, lo smartphone registra spesso 15mila passi».

La mutazione genetica di Pompei è stata resa possibile dall’assorbimento di ragazzi e di ragazze nelle posizioni gerarchiche più differenti. Hanno lauree e dottorati di ricerca in lettere classiche e filosofia, architettura e ingegneria. Gli architetti e gli ingegneri sono una novità. Si parla in inglese con i turisti: cosa prima non scontata.

Osanna ha esercitato l’arte maieutica e la persuasione in maniera sfiancante sulla vecchia struttura, composta da dirigenti magari validi ma non propriamente aperti alle innovazioni: «Quando ho nominato a capo dell’ufficio tecnico una donna di 40 anni, Anna Maria Mauro, di carattere e molto competente, è stato un trauma per la vecchia dirigenza, per lo più maschi di età assai più matura», dice con il sorriso duro di chi ha compiuto una cosa non da poco nelle intenzioni e non scontata nella sua effettiva realizzazione. E, poi, attingendo ad una educata ironia molto da borghesia lucana (il papà Raffaele, morto quando lui aveva tre anni, era un ginecologo e la mamma Rosa Antonia ha tuttora, insieme al secondo marito Antonio Vaccaro, una casa editrice, Osanna Edizioni, specializzata in letteratura latina e in meridionalistica), aggiunge sempre sorridendo: «Quando spiegai alla mia struttura più tradizionalista che avremmo digitalizzato l’archivio, mi guardarono straniti e mi dissero: “Ma, così, lo vedono tutti”».

Mentre vengono portate bruschette con pomodoro, olio e sale e prosciutto crudo di Parma, piatti di scarola e mozzarelle di bufala, mi accorgo che la conversazione con lui ha la forma del pendolo: passa in continuazione dalla dimensione pubblica alla dimensione privata, dalla sua attitudine di gestore alla sua vocazione da intellettuale che ha una idea particolare – né tradizionalista né parruccona – dei beni culturali. Nell’anfiteatro di Pompei hanno suonato, fra gli altri, Elton John, James Taylor e David Gilmour, storico chitarrista e cantante dei Pink Floyd. Nel parco archeologico, i reperti sono stati raccolti in mostre aperte al pubblico, cosa prima mai fatta.

Il background

Osanna si è formato nelle scuole meridionali. È di Venosa, in provincia di Matera: «La cittadina di Quinto Orazio Flacco. Gli scavi romani non erano recintati. A otto anni, io e i miei amici andavamo in bicicletta a cercare i reperti. Un mio compagno di giochi teneva sotto il letto un teschio umano. Ho sempre desiderato fare l’archeologo. E ci sono riuscito». Il suo percorso universitario è italiano: «Sono allievo diretto di Mario Torelli, che a sua volta è stato un allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli». La sua frequentazione assidua del circuito accademico internazionale ha aggiunto competenze e relazioni, senza però togliere desiderio di appartenenza alla comunità nazionale.

Arriva in tavola il piatto principale: spaghetti ai tre pomodori, il piennolo del Vesuvio e i pomodori di San Marzano e di Corbara. «Assaggia, assaggia, questo è il vero oro di Napoli», dice Osanna. Ricchezza gastronomica. Ma, anche, ricchezza nella buona gestione e nel denaro non sprecato né fatto evaporare. A Pompei Osanna ha evitato che il denaro pubblico – i fondi dell’Unione europea, nel cui non utilizzo l’Italia è specialista – restasse una posta di bilancio teorica. «Nel 2014 – ricorda – ho trovato pochi progetti e poche gare, a fronte di una disponibilità formale di 105 milioni di euro dell’Unione europea. Soldi che, alla fine, sarebbero stati persi. Dal settembre del 2015, con l’apertura di 55 cantieri, siamo riusciti a spendere, o meglio ad investire, 150 milioni di euro. Ai quali, adesso, si aggiungeranno altri 40 milioni di fondi Cipe».

Denaro non sprecato, ma anche liberazione progettata. Un altro esempio è la liberazione dall’incuria pubblica e dal soggiogamento alla criminalità del Real Polverificio Borbonico di Scafati. «Scafati è un piccolo paese che confina con Pompei. Il Real Polverificio è una struttura finora di proprietà dell’Agenzia del Demanio e del Ministero della Difesa. La Camorra ne ha fatto una discarica. Ora la stiamo bonificando. Poi installeremo la videosorveglianza. Quindi la trasformeremo in una sede distaccata di Pompei e, attraverso il project financing con le imprese, ne faremo una struttura ricettiva. Il primo passo sarà aprire a tutti il suo parco, una enorme area verde sfuggita alla speculazione edilizia».

La speranza dopo il covid

La situazione è, per l’Italia, drammatica. Ma, qui a Pompei, la contaminazione fra cultura e organizzazione, filologia e managerialità ti dà un senso di speranza. «Dobbiamo procedere un passo alla volta. Un aspetto positivo è dato dalla composizione del nostro pubblico. Al mio arrivo, l’80% era composto da stranieri e il 20% da italiani. Un minuto prima della chiusura da coronavirus, eravamo a metà e metà. La riapertura del Paese ci permette, con gradualità, di pensare di fare di nuovo subito bene».

Il caffè, anche senza zucchero, non appare amaro. E la torta caprese e la pastiera servita calda fanno il resto. E, nonostante tutto, in questa nostra Italia così scossa e intorpidita alla fine di questo pranzo rimane un senso di prima sazietà, di parziale equilibrio dell’umore e del corpo, se non di una promessa di dolcezza.

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