30 giugno 2020 - 22:00

Coronavirus, la rabbia dei medici di Pavia: «Prima eroi, ora sotto accusa»

La lettera di 19 dottori del Pronto soccorso: «Riceviamo richiami, segnalazioni, esposti in Procura... è umiliante e demotivante». Il professor Perlini, responsabile del reparto: «Il cambio di atteggiamento si vede, si sente, si percepisce nelle piazze»

di Andrea Pasqualetto

Coronavirus, la rabbia dei medici di Pavia: «Prima eroi, ora sotto accusa»
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«Abbiamo sperimentato la paura, la tristezza, la desolazione, l’impotenza, siamo stati chiamati eroi... Oggi riceviamo richiami, segnalazioni, esposti in Procura... Se quello che abbiamo vissuto ci è sembrato un incubo questo epilogo lo è ancora di più». Sorpresi, delusi, arrabbiati. Sono i diciannove medici del Pronto soccorso dell’Ospedale San Matteo di Pavia che in una lettera alla Provincia Pavese hanno voluto denunciare pubblicamente il loro disappunto per quel che sta accadendo: da eroi, «che non siamo», a sospettati, «che è umiliante, demotivante, frustrante». Da un estremo all’altro, dall’osanna all’accusa, senza conoscere le mezze misure. Lettera amara quella di questi dottori finiti nel turbine della pandemia che li ha visti protagonisti per quattro lunghissimi mesi.

Cambio di atteggiamento

«Il cambio di atteggiamento si vede in tivù, si sente, si percepisce nelle piazze — spiega il direttore del reparto, Stefano Perlini, che ha condiviso lo sfogo con i suoi colleghi —. Sembra che il problema sia solo quello di capire di chi è stata la colpa di tanto dolore. Ora, gli esposti non riguardano il nostro gruppo di lavoro, ma è comunque avvilente, soprattutto se si pensa alle fatiche fatte, all’energia profusa e anche a quel clima di solidarietà, di umanità che si era creato».
Il Pronto soccorso di Pavia era in prima linea nella lotta al virus, con punte di 300 accessi al giorno nel periodo nero, quando l’ospedale di Lodi veniva sopraffatto dall’emergenza e Cremona aveva esaurito i posti letto. «Il virus colpiva come la biglia rossa impazzita di un flipper rotto e lo faceva senza criterio, come una maledizione da cui ciascuno sperava di scampare — scrivono i medici —. E mentre tutti avevano paura del mostro che avanzava e avrebbe potuto colpire ciascuno di noi, ecco che noi medici di Pronto soccorso ci siamo trovati improvvisamente a dover indossare doppie vesti. Quella di esseri umani, spaventati come tutti, e quella di professionisti “dedicati all’umano” a cui veniva chiesto di essere presenti...». Ricordano di non essersi mai sentiti degli eroi «perché gli eroi, di solito, scoprono di avere dei superpoteri, noi, invece, no, solo tante fragilità: la paura di essere inadeguati, di non farcela, di crollare... C’è stato chi si è ammalato e si è isolato, chi è rimasto in piedi... abbiamo cercato comunque di curare per come meglio potevamo...».

Ripartiamo dal rispetto

Non si aspettavano l’onda di ritorno che ha portato la sgradevole sensazione di essere sul banco degli imputati. «Oggi si cerca solo di individuare i responsabili — puntualizza il professor Perlini —. Io invece vorrei ripartire da quel rispetto spontaneo che era nato fra tutti, dalla solidarietà dei giorni bui. Abbiamo sentito molto il sostegno di chi era fuori, è stato di grande aiuto per tutti noi, medici, infermieri, specializzandi. Non dimentichiamoci di questo grande insegnamento che ci è arrivato. Ci sono state molte tragedie, purtroppo, posso capire la rabbia delle famiglie ma non cerchiamo a tutti i costi un colpevole».

L’incontro con tre familiari

Nei giorni della tempesta arrivavano messaggi di ringraziamento, di vicinanza, di incoraggiamento. Loro erano la voce dei malati, che parlava con i loro familiari bloccati a casa. All’inizio molti contagiati arrivavano dalla vicina zona rossa di Codogno, dalla quale le mogli, i mariti, i figli non potevano uscire. «Ne ho incontrati alcuni proprio in questi giorni, altri erano venuti in precedenza a recuperare effetti e documenti che si erano persi nel caos — racconta il professore —. Ho visto una moglie e due figli. Tre storie diverse, tre tragedie. Hanno voluto sapere cos’era successo cercando di ricostruire il percorso del ricovero fino all’ultimo giorno. Spero abbiano capito che c’è stata dell’umanità in quel percorso. Ripartiamo da qui».

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