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Martedì 30 giugno
editorialistadi Marilisa Palumbo
Che i sondaggi di Trump non fossero buoni, lo si sapeva da un po', ma negli ultimi giorni i segnali negativi si sono moltiplicati e ora l'allarme arriva anche da destra: sia dai media conservatori dell'establishment come il Wall Street Journal, sia dagli aedi trumpiani di Fox. Fino a un sussurro che è anche una provocazione: The Donald potrebbe gettare la spugna?

E mentre arriva il timbro sotto la legge sulla sicurezza nazionale che mette fine a Hong Kong come la conoscevamo, guerre interne ed esterne si giocano attraverso non più solo l'uso, ma la restrizione dei social media: l'India blocca TikTok; Twitch, la piattaforma di videogame di Amazon, sospende il canale della campagna di Trump.

Ma nella newsletter di oggi ci sono anche molti personaggi: primo tra tutti, il mitico direttore del «Washington Post» Marty Baron, icona che rischia di naufragare nelle acque tempestose del nuovo giornalismo.

Buona lettura


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1. L’allarme viene (anche) da destra: Trump scivola verso la sconfitta?
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Cravatta slacciata, espressione cupa: Donald Trump di ritorno dal comizio della settimana scorsa a Tulsa
editorialista
di Massimo Gaggi

E se Trump dovesse ritirarsi dalla corsa per la riconferma alla Casa Bianca? Solo tre mesi fa moltissimi, anche in campo democratico, davano per scontato un secondo mandato del presidente del fronte conservatore. Oggi, con i sondaggi che continuano a indicare un crollo apparentemente senza fondo della popolarità di The Donald, i repubblicani dichiarano ormai apertamente di temere una sconfitta devastante (il democratico Biden eletto con ampio margine mentre la destra perde anche il Senato, oltre alla Camera) e c’è addirittura chi ipotizza l’impensabile: il drop out, un improvviso ritiro di Trump dalla competizione elettorale. Perfino la Fox, la rete ultraconservatrice, comincia ad affacciare questa ipotesi, mentre Charles Gasparino, un giornalista finanziaria molto ben introdotto negli ambienti repubblicani che contano, sostiene che questa ipotesi è ormai discussa dai leader del partito, anche se nessun ne parla in pubblico.

Perché tanto allarme? La Casa Bianca sdrammatizza, non dà alcun credito ai sondaggi che Trump ha a lungo etichettato come fake news. Del resto anche nel 2016 le rilevazioni lo davano perdente, e i livelli di consensi per il presidente erano bassi anche in inverno, quando tutti davano comunque Trump vicino alla rielezione. Nelle ultime settimane, però, il gap dei sondaggi si è allargato enormemente e ormai Trump viene dato per perdente con ampio margine su Biden anche negli Stati-chiave (Pennsylvania, Wisconsin, Michigan, Ohio) e anche in alcuni Stati che fino a ieri sembravano dalla sua parte (Florida, Arizona, le due Caroline).

Colpito dal fatto che anche nella roccaforte conservatrice del Texas Trump e Biden appaiono testa a testa, Karl Rove, texano e stratega delle vittorie elettorali di Bush, sostiene che se Trump non cambia rotta e non presenta un programma convincente per il secondo mandato, andrà incontro a sconfitta sicura. Secondo lui i sondaggi più attendibili sono quelli di Real Clear Politics che in pochi giorni hanno visto il gap nazionale tra Trump e Biden allargarsi da 5 a 9 punti percentuali.

Trump è davvero con le spalle al muro? Mancano più di quattro mesi al voto, il presidente ha tempo per recuperare. La sensazione è che i media conservatori suonino l’allarme per scuotere Trump che non riesce a mettere in piedi una campagna elettorale ordinata, continuando coi suoi tweet rabbiosi che piacciono agli integralisti bianchi, ma gli fanno perdere consensi in tutti altri gruppi sociali.

La Fox sta anche facendo una sorta di elettrochoc ai conservatori che si stanno allontanando da Trump. Il messaggio è: «Dopo di lui il diluvio, tra qualche mese saremo governati da un presidente-fantoccio, Biden, che risponderà agli ordini della sinistra radicale».

E se Trump dovesse ritirarsi davvero? Non ci sono precedenti, ma The Donald ci ha abituato a molte cose senza precedenti. Se rinunciasse all’incarico prima della convention repubblicana di agosto, probabilmente i suoi delegati passerebbero a Mike Pence che diventerebbe il candidato alla presidenza. Se dovesse rinunciare a settembre o ad ottobre (si vota il 3 novembre), una volta preso atto che la sconfitta è per lui sicura, toccherà all’Rnc, l’organizzazione del partito repubblicano coi suoi delegati, scegliere liberamente un altro candidato. Ma è uno scenario improbabile.

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2. Intanto Pence si converte alle mascherine. E The Donald?
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Il vicepresidente Mike Pence, 61 anni
editorialista
di Giuseppe Sarcina
corrispondente da Washington

Dopo sei mesi trascorsi sulla scia di Donald Trump, ieri Mike Pence ha cambiato bruscamente passo: «Incoraggiamo tutti a indossare la mascherina nelle aree più colpite». Per la prima volta ha dato l’esempio, facendosi vedere in pubblico con una mascherina nera, molto simile a quella normalmente indossata da Joe Biden e che tanto fa divertire Trump.

La conversione di Pence non è isolata. L’Amministrazione è in pieno allarme. Gli Stati del Sud, a partire da Texas e Florida, hanno già cominciato a richiudere le attività commerciali. Gli ospedali sono sotto pressione. Il timore è che sia solo l’inizio di un’altra ondata di coronavirus che possa spegnere la speranza di una ripresa a breve. A parte il consigliere per l’economia Larry Kudlow che ancora immagina un recupero a V della produzione, tutti gli altri sembrano sprofondati nell’ansia. Pence è la figura più evidente di un’agitazione diffusa nel governo e condivisa anche da Mitch McConnell. Il leader al Senato ieri si è unito all’appello di Pence: «Mettete la mascherina».

Trump si lascerà convincere? Il presidente sembra ormai prigioniero del suo personaggio. Alla fine di questa strada, cioè alle elezioni di novembre, prevede anche l’editorial board del Wall Street Journal, lo aspetta una cocente disfatta. L’aspetto più paradossale è che, lontano dai riflettori, Trump è super preoccupato per il virus. A Washington raccontano che abbia dato disposizioni rigidissime: tutti coloro che gli si avvicinano devono avere la mascherina e restare a una distanza di almeno 5 metri.

3. Hong Kong, ultimo atto
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Un attivista pro Pechino solleva la bandiera cinese. Sullo sfondo, il poster della nuova Legge sulla sicurezza nazionale
editorialista
di Guido Santevecchi
corrispondente da Pechino

Il Congresso del popolo cinese ha messo questa mattina il timbro sotto la Legge di sicurezza nazionale per Hong Kong. Voto all’unanimità da parte dei 162 membri del Comitato permanente del Congresso, riunito in Piazza Tienanmen. Pechino aveva fretta di varare la legislazione anti sedizione, anti secessione, anti terrorismo, anti collusione con lo straniero in tempo per la celebrazione dell’1 luglio, 23° anniversario della restituzione dell’ex colonia britannica alla Madrepatria. La nuova legge cinese deve ingabbiare la protesta, pacifica o violenta che sia. Pechino ribatte che, piaccia o no agli stranieri colonialisti e nostalgici, Hong Kong è parte della Cina e non saranno ammesse ingerenze esterne in affari interni. Ancora incerti i metodi di applicazione, le pene: si è parlato anche di ergastolo per i trasgressori (...)

Dal 1997 vige il principio «Un Paese due sistemi». Secondo l’opposizione democratica di Hong Kong “vigeva”. La Legge cinese ora omologherà la City orgogliosa al modello di altre città della Cina, impedendo di protestare contro il governo e il Partito-Stato (qui l’articolo completo).

Joshua Wong ha detto che Hong Kong libera è finita e si è dimesso da Demosisto, il partito che aveva fondato e che ora potrebbe essere dichiarato sovversivo e secessionista. Joshua in passato è stato a Washington, ha chiesto per anni aiuto al mondo, è stato in copertina su tutta la stampa occidentale, trattato da icona. Ora potrebbe essere accusato anche di collusione con forze straniere, per quegli incontri e quelle interviste.

4. New Delhi blocca TikTok: la tensione India-Cina si sposta sul web
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Un cartello che vieta l’uso di TikTok davanti al Tempio d’Oro, un tempio Sikh ad Amritsar, nello Stato del Punjab
editorialista
di Alessandra Muglia

In nome della «sicurezza nazionale» l’India ha bloccato TikTok e altre 58 app cinesi. «Una misura di emergenza» l’ha definita il ministero della Tecnologia di Delhi, per evitare che i «dati degli utenti rubati e trasmessi in modo surrettizio e non autorizzato» finiscano nelle mani di «soggetti ostili alla sicurezza nazionale e alla difesa dell’India», leggi i cinesi. Immediata la reazione di Bytedance, la startup con sede a Pechino che possiede la piattaforma di condivisione di clip. L’azienda ha smentito di aver comunicato i dati degli utenti indiani al governo cinese: «TikTok continua a rispettare la sicurezza e la privacy dei dati secondo la legge indiana e non ha condiviso alcuna informazione sui nostri utenti in India con governi stranieri, incluso il governo cinese» ha dichiarato, preoccupata di perdere un enorme bacino di traffico. Il social è infatti molto popolare tra i teenager indiani: il 30% dei 2 miliardi di download è localizzato proprio nel Subcontinente.

(...) Una stretta che si inserisce nel clima di crescente tensione con Pechino dopo lo scontro, a metà giugno, tra le forze di sicurezza indiane e cinesi vicino al confine conteso sull’Himalaya, dove sono morti 20 soldati del Subcontinente. Quest’anno ricorrono i 70 anni delle relazioni indo-cinesi e sono contrassegnati dall’acuirsi del lungo conflitto a bassa intensità per il controllo dei territori più alti della Terra. Il sentimento anti cinese è cresciuto in India nelle ultime settimane con l’hashtag «Boycott China» e alcune sue varianti tra i top trend di Twitter e la condivisione di video che mostrano la distruzione di telefonini , tv e altri prodotti cinesi (qui l’articolo completo)

5. E Twitch blocca il canale di Trump per «comportamento carico d’odio»
editorialista
di Martina Pennisi

È arrivato/diventato il momento dei segnali forti (perché le elezioni americane del novembre 2020 si avvicinano). Per Twitch non ci sono mezze misure: l’account di Donald Trump è stato sospeso dalla piattaforma di streaming di videogame di proprietà di Amazon per «condotta piena di odio. I politici devono aderire ai nostri termini di servizio e norme. Non facciamo eccezioni». Il bando del canale aperto lo scorso anno è temporaneo — ancora non si sa per quanto tempo—, ed è dovuto alla condivisione di due video in cui Trump dà ai messicani dei criminali e, durante un comizio a Tulsa, parla di un «hombre» che si è introdotto nella casa di una giovane donna.

Twitch è più drastico di Twitter e Facebook. Il primo ha già iniziato a etichettare i contenuti inopportuni del presidente, il secondo è finito nel mirino degli inserzionisti che reputano insufficienti le misure adottate contro odio e razzismo e Zuckerberg si è detto pronto a intervenire anche sui post di interesse pubblico dei politici nel caso in cui violino le sue regole. Come nel caso di Twitter, i post non verranno rimossi, ma solo etichettati. Intanto ha preso posizione anche Reddit: il canale di sostenitori del presidente, The_Donald, è stato rimosso per aver diffuso meme e messaggi razzisti e d’odio.

6. Provaci ancora, Marty
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Marty Baron, 65 anni, nel 2018 alla festa del Post per i due Pulitzer vinti quell’anno
editorialista
di Mara Gergolet

Marty Baron lo conoscono anche i non giornalisti. È il direttore del Boston Globe di Spotlight, quello che «non va mai a casa». Ha fatto vincere ai suoi il Pulitzer con l’inchiesta sulla pedofilia, che ha mandato in bancarotta la diocesi di Boston e in ginocchio la Chiesa americana. È l’uomo che quasi da solo (con i soldi di Bezos), ha rilanciato il Washington Post, che perdeva copie e milioni da anni. Guida il giornale più anti-trumpiano d’America («Non siamo contro il presidente degli Stati Uniti, siamo al lavoro»). È l’unico direttore di giornale leggendario rimasto in giro.

E forse ha perso il tocco. È stato Black Lives Matter a far esplodere le tensioni al Post (ne parla anche qui il New York Times ). Soprattutto i giornalisti neri hanno contestato la copertura «imparziale» degli eventi. Sono emerse «censure» e i limiti imposti ai reporter sui social network, si è capito l’addio di alcune giovani star, scontente.

Ma a ben vedere, le tensioni del Post sono l’essenza del conflitto nel giornalismo d’oggi, che non può che essere generazionale (i millennial sotto i 40/ gli altri). Da una parte, l’approccio alla notizia il più possibile «dall’esterno», dall’altra la volontà dell’immersione e della presa di posizione. Il giornale-istituzione senza volto contro gli account (e anche le newsletter) con la faccia degli autori.

Marty Baron (calmo, introverso, rigoroso fino all’ossessione, e impersonato benissimo da Liev Schreiber in Spotlight) è il simbolo dell’editor vecchio stile. È l’uomo della carta che ha fatto compiere ai suoi la più straordinaria delle traversate nel deserto, salvo ritrovarsi alla fine in una terra per lui poco ospitale. Tra le pieghe dell’articolo del NYTimes, la notizia che potrebbe lasciare dopo l’inaugurazione del nuovo presidente (o di Trump) a gennaio. Provaci ancora, Marty.

LA MAPPA DEL GIORNO
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Vivi in un deserto di notizie? Una mappa sui giornali locali in America
editorialista
di Simone Sabattini

È una fotografia del deserto che avanza, ma non parliamo di risorse naturali: è il deserto dei media e dell’informazione locale. Ogni punto rosso nella mappa elaborata dalla Scuola di giornalismo dell’Università della North Carolina a Chapel Hill è una contea americana priva di qualsivoglia mezzo d’informazione locale. Le zone gialle sono quelle che ne contano solo uno, quindi in regime di monopolio. E spesso si tratta di un settimanale. È un allarme che va avanti da tempo: la progressiva estinzione dei media più piccoli – spesso cruciali per le comunità rurali – è inesorabile. Ma il coronavirus ha dato una nuova spinta. Tra il 2004 e il 2018, negli Stati Uniti, hanno chiuso più o meno 1800 giornali, colpiti in larga parte dalla strage di pubblicità compiuta dei grandi social network.

7. C’è un giudice a Washington
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Il presidente della Corte Suprema americana John Roberts, 65 anni
editorialista
di Andrea Marinelli

Nelle ultime due settimane la Corte Suprema ha consegnato agli Stati Uniti tre decisioni inaspettate su immigrazione, diritti gay e, ieri, aborto: in ognuna, a spostare l’equilibrio di una corte a maggioranza conservatrice è stato il giudice capo John Roberts, 65 anni, nominato da George W. Bush nel 2005. Roberts già in passato si è schierato con i colleghi progressisti, in particolare sulla riforma sanitaria di Obama, ma ha un percorso decisamente conservatore, soprattutto per quanto riguarda i valori sociali e l’aborto: con il ritiro di Anthony Kennedy, si è ritrovato però al centro ideologico della Corte, finendo per risultare spesso determinante.

«Non è solo il più potente giocatore in campo», ha spiegato al New York Times Lee Epstein, professore di legge alla Washington University di St. Louis. «È anche il giudice capo più potente da almeno il 1937». In quest’ultima decisione, Roberts non ha seguito il ragionamento legale dei colleghi progressisti, ma con un parere separato ha scelto di dichiarare incostituzionale una legge che rendeva quasi impossibile l’interruzione di gravidanza in Louisiana soltanto perché era sostanzialmente identica, quasi parola per parola, a una legge del Texas che la Corte aveva già bocciato nel 2016. Non è diventato improvvisamente un eroe «pro-choice», ha chiarito dunque il New York Times, anche perché la decisione si limita al caso specifico e non impedisce nuovi ricorsi. In un Paese diviso, stremato dalla pandemia e dalle tensioni razziali, scrive però Cnn, i suoi voti riflettono la scelta di mettere l’integrità istituzionale della Corte Suprema davanti all’ideologia personale.

8. Soldi (tanti), portaerei, esercitazioni: i segnali americani nel Pacifico
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Le portaerei Nimitz e Roosevelt nel Pacifico (foto Us Navy)
editorialista
di Guido Olimpio

Un budget da 3.6 miliardi di dollari. Lo ha presentato Adam Smith, alla guida della Commissione Difesa della Camera Usa. È il terzo piano, in concorrenza con altri, studiato per finanziare la strategia di contrasto alla Cina mentre il Senato ha già approvato un pacchetto da 1.4 miliardi per il 2021.

Le discussioni e le analisi tra i parlamentari inizieranno in questi giorni, tutti comunque convinti sulla necessità di dare una risposta alle sfide emergenti. Da notare come il Pentagono abbia diffuso immagini significative per rimarcare l’impegno nel settore asiatico. Le prime riguardano le esercitazioni che hanno coinvolto le portaerei Nimitz, Reagan e Roosevelt, accompagnate da unità di scorta e dall’America. Non meno interessante il video sull’addestramento dei Berretti Verdi statunitensi a Taiwan. Messaggi per Pechino che, comunque, non sta a guardare: sono state appena annunciate manovre al largo del Vietnam.

9. Le accuse a Pechino: impone il controllo delle nascite sulle donne uigure
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Una donna uigura con i suoi bambini all’uscita da scuola
editorialista
di Marta Serafini

Sterilizzate per evitare che la minoranza etnica cresca. Secondo un rapporto pubblicato da un ricercatore tedesco, Adrian Zenz, Pechino starebbe conducendo una campagna per costringere le donne uigure a interrompere le gravidanze o sottoporsi a interventi per non restare incinte. Il lavoro di Zenz basato sui dati nei campi di rieducazione e detenzione — che utilizza documenti pubblici trovati perlustrando la rete cinese — è stato precedentemente citato da esperti di un panel delle Nazioni Unite che indagava sulle strutture. Secondo la denuncia, alle donne che hanno superato i limite concesso dalla legge cinese di due figli sono state impiantanti metodi di contraccezione intrauterini senza il loro consenso.

Zenz ha scoperto anche che la crescita della popolazione nelle contee dello Xinjiang è scesa al di sotto della media e che il tasso di sterilizzazioni ufficialmente registrato nella regione ha notevolmente superato quello nazionale. Ex detenute del campo hanno riferito di essere state sottoposte a iniezioni che interrompevano il loro ciclo mestruale. Attivisti uiguri affermano che la Cina sta usando i campi di internamento per condurre una massiccia campagna di lavaggio del cervello volta a sradicare la loro cultura e la loro identità islamica. «Questi risultati sollevano serie preoccupazioni sul fatto che le politiche di Pechino nello Xinjiang rappresentino ciò che potrebbe essere caratterizzato come una campagna demografica di genocidio» secondo le definizioni delle Nazioni Unite, ha affermato Zenz nel rapporto. Pechino è accusata di aver bloccato più di un milione di uiguri e di persone appartenenti ad altre minoranze per lo più musulmane nei campi di rieducazione. Il governo cinese descrive le strutture come centri di formazione professionale volti ad allontanare le persone dal terrorismo separatista e nega ogni accusa.

10. Kim e la regola del 21, cosa c’è dietro il ritmo delle sue apparizioni?
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(Guido Santevecchi) Ci risiamo. Kim Jong-un non è comparso in pubblico per 21 giorni. Il Rispettato Maresciallo nordcoreano ci aveva tenuto in ansia per tre settimane esatte ad aprile, prima di presentarsi alla cerimonia di inaugurazione di un impianto chimico l’1 maggio. Dopo l’apparizione, di nuovo buio intorno a lui. Altre tre settimane di assenza; riapparizione il 24 maggio. Di nuovo nascosto alle masse nordiste fino all’8 giugno, quando fu segnalato alla «guida di una cruciale riunione dell’Ufficio politico del Comitato centrale». Luci accese a cadenza quasi perfetta: circa 21 giorni.

NK News, sito specializzato in analisi coreane, ha contato da inizio aprile a fine giugno (91 giorni), solo 7 presenze. Un drammatico calo rispetto agli anni dal 2012 al 2019, quando Kim usciva dal suo bunker dorato in media 46 volte. E sulla regola del 21 fioccano le interpretazioni (qui l’articolo completo)

11. Somiglia troppo a Xi. E il povero baritono viene oscurato sui social
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Xi Jinping e Liu Keqing

(Guido Santevecchi) Il signore nella foto a sinistra non ha bisogno di presentazioni: è Xi Jinping, 67 anni, segretario generale del partito comunista cinese, Presidente della Repubblica popolare cinese e della sua Commissione militare centrale (oltre che di una dozzina di Gruppi guida politico-sociali).

L’uomo a destra si chiama Liu Keqing, professione baritono, 63 anni, dei quali 47 in carriera canora. Piuttosto apprezzato in Cina. Centinaia di migliaia di seguaci sui social network mandarini. Fino a quando qualcuno (molti, troppi cinesi) non ha cominciato a notare una notevole somiglianza tra Liu e Xi. Stesso taglio di capelli, fronte larga, naso abbondante, statura alta e massiccia. «Io non mi sento somigliante, ma sapete com’è la gente, soprattutto in provincia... hanno cominciato a fare la fila per chiedermi autografi con deferenza, ho ricevuto regali costosi», ha raccontato il baritono.

A quanto pare qualcuno a Pechino non ha gradito: le sue foto in camicia bianca (anche Xi ama presentarsi in maniche di camicia al popolo) sono state oscurate dal web, gli account di Liu sui social network sono stati bloccati. Un altro segno dell’ossessione del potere per il controllo di Internet e di ogni paragone con la figura del Capo supremo, anche la più ingenua. Anni fa fu censurato Winnie the Pooh, l’orsetto di pezza che a molti cinesi ricordava Xi nei momenti di bonomia.

Da tenere d’occhio

(Guido Olimpio) È guerra di versioni sulla presunta taglia offerta dai russi ai talebani per uccidere soldati Usa in Afghanistan. Sui media nuove indiscrezioni sostengono che Donald Trump era stato informato a febbraio e marzo. La Casa Bianca, per ora, nega. Come vi abbiamo raccontato ieri, è una battaglia politica e sull’intelligence.

Nuova sparatoria, la quarta in dieci giorni, nella «Chop zone» di Seattle, la zona vicino al Congresso occupata dai manifestanti che protestano per l’uccisione dell’afroamericano George Floyd. Un 16enne è stato ucciso e un 14enne è ricoverato in terapia intensiva. Un’esperienza che sta finendo molto male, come vi raccontavamo già la settimana scorsa.

Grazie per averci letto.
Buona giornata e a domani,

Marilisa Palumbo


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