Mauro Covacich: Miracolo a Trieste

Quattro tappe a spasso per la città del FriulI-venezia giulia. Per scoprire 
il percorso verso il risultato di oggi: la pace tra le comunità italiana e slovena
Mauro Covacich Miracolo a Trieste

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 24/25 di Vanity Fair in edicola dal 17 giugno

Intrecciato all’itinerario più prestigioso e fotogenico della Trieste asburgica, esiste un itinerario spiccatamente novecentesco che può dar conto in modo efficace al visitatore occasionale di cos’è stata la storia più recente della città, ovvero un’aspra contesa tendente all’odio tra la comunità italiana e quella slovena, da cui solo negli ultimi anni è sorta questa forma pacifica di convivenza che a noi autoctoni ogni tanto appare ancora miracolosa.

Quindi, dopo aver visitato il castello di Miramare, che testimonia i fasti della Trieste di fine Ottocento (così come i caffè storici raccontano della trimurti letteraria Svevo-Saba-Joyce), consiglio una sosta alla Narodni Dom, la casa del popolo slovena, ora sede della scuola per interpreti, complesso che all’inizio del Novecento comprendeva un teatro, due ristoranti, una biblioteca, una banca e che il 13 luglio 1920, esattamente cento anni fa, è stato incendiato dai primi fascisti (ma noi in città da questo punto di vista siamo sempre stati molto precoci, non è un caso se Mussolini nel 1938 sceglie di leggere le leggi razziali proprio da qui).

Poco distante, seconda sosta, si apre la vasta piazza Oberdan, al centro della quale c’è un bel bronzo di Marcello Mascherini intitolato Cantico dei Cantici. Benché non abbia prove sufficienti, sono piuttosto convinto, dal titolo e dal soggetto (due amanti abbracciati), che Mascherini abbia concepito la sua opera in omaggio alla figura di Pino Robusti, ragazzo non ebreo e non partigiano che un giorno di marzo del 1945 si trovava proprio lì in attesa della sua fidanzata, prima che una pattuglia di SS lo arrestasse per condurlo alla Risiera di San Sabba.

La Risiera, terza sosta (dieci minuti di autobus dal centro), oggi monumento nazionale, è stato l’unico forno crematorio nazista in territorio italiano. Le vittime erano in prevalenza prigionieri politici, italiani e sloveni, pochi gli ebrei, quasi tutti deportati a Dachau o Auschwitz. Il posto è stato mirabilmente restaurato negli anni Settanta da un architetto del Comune, Romano Boico, il quale cingendo i ruderi con alti muri di cemento ha reso leggibile il perimetro e le dimensioni ridotte del campo, ma ha soprattutto favorito le condizioni per il raccoglimento del visitatore.

In questo tempio laico si possono leggere le ultime lettere scritte da Pino Robusti ai genitori e alla fidanzata. Io, anche per aver abitato a lungo nei pressi, le conosco quasi a memoria e ancora non smetto di stupirmi, rileggendole, di come un ragazzo di ventidue anni potesse dar prova di una simile combinazione di sensibilità e fermezza. Tra l’altro, farà sorridere apprendere dalle sue parole di come sia diventato partigiano nei brevi giorni di prigionia imparando, lui italiano, i canti dei compagni sloveni.

Ed eccoci alla quarta sosta (altri dieci minuti di autobus), in un paesino dell’altopiano carsico di nome Basovizza, dove il nuovo sacrario custodisce la foiba, nella cui voragine (in realtà un pozzo minerario) sono stati gettati, incatenati gli uni agli altri, spesso ancora vivi, uomini e donne italiane accusati di collaborazione col regime fascista da parte dei partigiani sloveni che hanno controllato Trieste nei quaranta giorni di occupazione titina (maggio-giugno 1945). Sarà più apprezzata, credo, a questo punto, la passeggiata nel bosco di carpini e roverelle alle spalle del paese, dove per cinquant’anni è corsa la cosiddetta cortina di ferro e dove ora si può sconfinare in serenità seguendo i sentieri serpeggianti che cuciono insieme l’Italia e la Slovenia.

*Mauro Covacich, 55 anni, scrittore. Dal suo romanzo A nome tuo (Einaudi) è stato tratto Miele, il film di Valeria Golino. Nel 2017 ha vinto il premio Campiello con La città interiore (La Nave di Teseo).

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