11 giugno 2020 - 22:07

Coronavirus, Vespignani: «In Usa siamo ancora alla prima ondata, qui la sfida sarà più lunga»

Lo scienziato della Northeastern University di Boston: «Preoccupano casi come quello dell’Arizona, c’è il timore che gli ospedali si possano riempire di malati Covid»

di Giuseppe Sarcina

Coronavirus, Vespignani: «In Usa siamo ancora alla prima ondata, qui la sfida sarà più lunga»
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«Negli Stati Uniti la battaglia sarà più lunga. Qui siamo ancora nel pieno della prima ondata, ma ci sono anche segnali di ottimismo da non trascurare. A cominciare dalla diminuzione della mortalità». Alessandro Vespignani, 55 anni, romano, fisico informatico, è il direttore del Laboratory for the modeling of biological and Socio-technical Systems, alla Northeastern University di Boston. Da circa dieci anni è uno dei massimi esperti di «epidemiologia computazionale». Lo abbiamo sentito al telefono.

Il contagio ha ripreso slancio in 21 Stati, tra cui Texas e California. Si parla di una seconda ondata...

«Non parlerei di seconda ondata. Sappiamo che gli Stati Uniti sono composti da tante realtà diverse. È chiaro che qui la battaglia sarà più lunga rispetto a quanto stiamo osservando in Europa, dove si può passare alla fase successiva, avviando per esempio il tracciamento dei casi».

Nel fine settimana del 25 maggio, giorno del Memorial Day, si sono visti affollamenti incredibili sulle spiagge e nelle piscine...

«Bah... Stiamo parlando di episodi. Il punto è che negli Usa ci sono territori che hanno adottato misure di lockdown più rigide di altri. Alcune decisioni sono prese addirittura a livello di contea. Questo può spiegare la sorpresa di un dato come quello della California che pure ha adottato provvedimenti severi sul piano statale. In ogni caso siamo ancora nel pieno della prima ondata. A livello nazionale i numeri sono stabili, ma dobbiamo stare attenti perché da qualche parte la curva potrebbe uscire dalla traiettoria corretta. In diversi Stati, come l’Arizona, c’è il timore che nelle prossime settimane si possano riempire gli ospedali di malati Covid. È la condizione da cui sono appena usciti New York, il New Jersey e il Massachusetts».

Nel Paese sono già morte circa 115 mila persone. C’è chi teme altre 100 mila vittime da qui ad agosto...

«Penso che il nostro orizzonte debba essere quello delle quattro settimane. Noi, come altri, inviamo periodicamente le nostre proiezioni al Cdc (Center for desease control and prevention, l’autorità sanitaria federale ndr). Sulla base di questi modelli, è possibile prevedere che da qui a un mese si possa arrivare a un totale di 140-145 mila morti. Più o meno in linea con le stime fatte tempo fa».

Che cosa c’è da aspettarsi in autunno?

«È presto per dirlo. Ci sono troppe variabili in gioco. Per esempio non sappiamo come influirà la stagione estiva sulle misure di distanziamento sociale. Ripeto: meglio concentrarsi su ciò che potrà accadere da qui a un mese».

Il virus sta perdendo forza?

«Dal mio punto di osservazione, posso dire che sicuramente il tasso di mortalità diminuisce, anche se aumentano i contagi. È un elemento di ottimismo che è giusto segnalare. Il sistema sanitario ora è più attrezzato. In generale gli anziani sono più protetti. Inoltre sta facendo progressi la ricerca su terapie e vaccini. È uno scenario completamente diverso da marzo».

Nelle ultime settimane la voce dei medici e degli esperti è diventata più flebile, sovrastata dagli inviti di Donald Trump a riaprire l’economia. Molti governatori hanno tolto il lockdown contro il parere degli scienziati. Giusto così?

«All’inizio della pandemia la situazione era esplosiva. Ma questa evoluzione fa parte del ciclo naturale delle cose. La scienza non si può sostituire al decisore politico. Ha il compito di indicare quanti sono i casi, qual è lo sviluppo del contagio. Poi tocca al livello politico tenere conto di altre variabili: la condizione dell’economia, della società. E anche semplicemente del fatto che le persone sono stanche della chiusura totale».

Qual è ora il motivo di maggiore preoccupazione?

«In questa fase sia gli Usa che i Paesi europei si sono concentrati sui rispettivi quadri domestici. Comprensibile. Ma non possiamo perdere di vista lo scenario globale. C’è un mondo là fuori e se non saremo in grado di contenere la circolazione mondiale del virus, potremmo tutti andare incontro ad altri rischi».

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