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Coronavirus, siamo pronti
per una seconda ondata di contagi,
se dovesse arrivare?

Il virus non è scomparso: e il suo andamento è difficilmente prevedibile. Se dovesse arrivare una seconda ondata di contagi, saremmo in grado di individuarli, isolarli, e poi curarli? Quando saremo in grado di vaccinarci? E che cosa possiamo fare, intanto?


Di Margherita De Bac, Laura Cuppini, Cristina Marrone, Vera Martinella, Martina Pennisi, Simona Ravizza

Ci sarà una seconda ondata di contagi di coronavirus, in Italia? Al momento — mentre i dati sono in costante calo: sia per quanto riguarda i nuovi contagi, sia per quanto riguarda i decessi — l’ipotesi sembra lontana. Ma il virus Sars-CoV-2 non è scomparso, e la sua evoluzione resta, al momento, imprevedibile. «In assenza di un vaccino o di un trattamento farmacologico efficace, e a causa del livello di immunità della popolazione ancora basso, può verificarsi una rapida ripresa di trasmissione sostenuta nella comunità», scriveva il ministero della Salute il 30 aprile. A che punto saremmo, dunque, nel caso in cui una seconda ondata di contagi dovesse alzarsi? Quelle che seguono sono le risposte alle domande più urgenti, legate a questo dubbio.

1 C’è un piano del ministero della Salute?

Il ministro Roberto Speranza ha raccolto, per il 2020, 6,85 miliardi in più, con i quali migliorare un Servizio sanitario pubblico che da anni era stato depauperato in senso di organici (medici e parasanitari che andavano in pensione lasciando spazi vuoti) e posti letto. A questo pacchetto di finanziamenti potrebbero aggiungersi i 20 miliardi legati al Mes, il sistema di finanziamento agevolato messo a disposizione dall’Ue (al momento, però, c’è l’ostilità dei 5 Stelle), o ad altri strumenti europei. Il punto di partenza è il personale: tra gennaio e maggio sono già stati assunti 25 mila nuovi operatori, e sono previste 4.200 ulteriori borse di studio di specializzazione per i medici (che si uniscono alle 9mila finanziate in era pre-Covid). I fondi serviranno a creare 3800 letti di terapia intensiva e 4.225 in sub intensiva in più: quelli che sono mancati, durante l’emergenza. Non tutti saranno pronti per l’autunno: ma anche grazie a queste aggiunte il ministero è convinto che una seconda ondata non dovrebbe fare male come la prima. Una parte dei fondi saranno investiti nelle cure domiciliari, molto deficitarie soprattutto in certe aree del Paese, sofferenti già in tempi normali quando c’è da sostenere i malati cronici. Si punta sull’infermiere di famiglia (9.600 assunzioni), una figura che dovrebbe porsi come punto di riferimento per le famiglie, e su nuovi centri sul territorio, poliambulatori e case della Salute necessari per allentare la pressione sugli ospedali. Di questi nuovi poli si parla da molti anni: riforme e patti della Salute li hanno sempre individuati come priorità senza che poi seguissero azioni concrete. L’intenzione del ministro è però quella di avviare ora, finalmente, il disegno del Servizio sanitario nazionale del futuro.

2 C’è un sistema di tracciamento (tamponi, test) in grado di intercettare i nuovi contagi?

(Simona Ravizza) Individuare velocemente un caso sospetto, accertare nel più breve tempo possibile con un tampone l’eventuale positività al Covid-19 e isolare di conseguenza tutti i suoi contatti stretti (familiari, colleghi di lavoro...) è indispensabile. È il motivo per cui il decreto del ministero della Salute del 30 aprile, tra gli indicatori fondamentali per la ripartenza – e in vista di una possibile seconda ondata dell’epidemia –, dà un peso rilevante alla capacità di ciascuna Regione di accertamento diagnostico, indagine e gestione dei contatti.

Perché il sistema di tracciamento sia efficace, è necessario che tra la data di inizio sintomi e la data di diagnosi – come indicato dal Decreto del ministero della Saluet – trascorrano al massimo 5 giorni. «Dai primi rilevi emerge che quasi tutte le Regioni, a parte un paio, riescono a fare la diagnosi di un caso sospetto entro i tempi fissati – assicura l’epidemiologo Vittorio Demicheli, rappresentante delle Regioni all’interno della Cabina di regia del ministero della Salute per il sistema di monitoraggio –. E viene eseguito almeno il 90% delle inchieste epidemiologiche dei contatti stretti».

Ci sono, però, ancora troppe differenze tra Regione e Regione nell’efficacia del sistema di sorveglianza. Come sottolinea la Fondazione Gimbe, tra il 18 maggio e il 3 giugno, per esempio, a parità di incidenza di nuovi casi (4 ogni 100 mila abitanti), il Veneto ha fatto oltre 1.300 tamponi per 100 mila abitanti contro i neanche 800 del Lazio: «La capacità di ricerca del virus resta dunque ancora molto diversa tra le varie Regioni», riflette il presidente del Gimbe Nino Cartabellotta. Ciò è legato anche all’efficienza dei laboratori di microbiologia nell’eseguire tamponi e alla presenza di reagenti (ne avevamo scritto qui). Problemi ancora irrisolti e che in vista dell’autunno devono essere superati.

Ricorda il ministero della Salute: «La ricerca e la gestione dei contatti, per essere condotta in modo efficace, deve prevedere un adeguato numero di risorse umane, quali operatori sanitari e di sanità pubblica, personale amministrativo e, ove possibile, altro personale già presente nell’ambito dei Servizi veterinari dei Dipartimenti di Prevenzione, da coinvolgere secondo le esigenze locali. Sulla base delle stime dell’Ecdc, per garantire in modo ottimale questa attività essenziale dovrebbero essere messe a disposizione nelle diverse articolazioni locali non meno di 1 persona ogni 10.000 abitanti includendo le attività di indagine epidemiologica, il tracciamento dei contatti, il monitoraggio dei quarantenati, l’esecuzione dei tamponi, preferibilmente da eseguirsi in strutture centralizzate (drive in o simili), il raccordo con i medici di famiglia, il tempestivo inserimento dei dati nei diversi sistemi informativi». Questa rete, al momento, non è attiva in molte Regioni.

3 Sappiamo come isolare correttamente i casi sospetti?

(Simona Ravizza) Una delle lezioni fondamentali che ci arrivano dalla prima ondata dell’epidemia riguarda la necessità di non trasformare gli ospedali in diffusori del virus e, allo stesso tempo, di evitare il moltiplicarsi dei contagi tra le mura domestiche.

Per raggiungere il primo obiettivo sarà fondamentale innanzitutto creare in tutti i Pronto soccorso percorsi separati tra i pazienti che hanno i sintomi del Covid-19 rispetto agli altri. Un modello di Pronto soccorso in questo senso è quello di Codogno, riaperto nell’ospedale dove sono stati identificati il «Paziente Uno» e il «Paziente Due» dopo 104 di chiusura e dove sono addirittura sparite le sale d’attesa. «Il ministro Roberto Speranza – osserva Walter Ricciardi, consulente del ministero della Salute per l’emergenza Covid-19 – è riuscito a ottenere lo stanziamento di 200 milioni di euro soltanto per i lavori nelle unità d’emergenza. Ma tanti ospedali, che pure avrebbero i soldi, non stanno facendo partire i lavori».

E c’è ancora molto da fare in vista dell’autunno anche per l’isolamento adeguato all’interno delle famiglie dove il virus sta continuando a propagarsi. «A maggior ragione in vista di un’eventuale ripresa del contagio vanno migliorate le verifiche sulle condizioni abitative dei positivi — riflette l’epidemiologo Vittorio Demicheli —. Chi esegue le inchieste epidemiologiche deve preoccuparsi di verificare com’è fatta la casa del malato, con chi vive e se ha la possibilità di isolarsi rispetto al resto della famiglia. Altrimenti Comuni e Protezione civile devono preoccuparsi di offrire come alternativa un soggiorno in appositi alberghi».

4 La app Immuni può aiutare? E quanto?

(Martina Pennisi in collaborazione con Eugenio Santoro, ricercatore dell’Istituto Mario Negri ed esperto di innovazione nella sanità) L’app di tracciamento dei contatti c’è, e questa è una notizia confortante, dopo un concepimento e un parto un po’ travagliati. Il problema è che non ha ancora iniziato a svolgere il suo compito – e inizierà a farlo in tutta Italia dalla prossima settimana con l’invio delle notifiche a chi si è trovato a meno di due metri di distanza per almeno 15 minuti e qualcuno poi rivelatosi positivo. E non abbiamo precedenti a cui aggrapparci per quantificare il contributo reale che potrebbe dare e darà.

Il modello coreano cui si è tanto parlato incrocia molti più dati e non è compatibile con i nostri standard sulla privacy. Singapore ha dettato la linea sull’uso del Bluetooth, ma non ha aspettato il modello di Apple e Google, indispensabile per far funzionare il segnale sugli iPhone e dunque far funzionare l’app, e adesso sta pensando di accantonare gli smartphone e affidarsi a dispositivi indossabili. Immuni sta combattendo con qualche bug, ma i punti interrogativi e gli auspici non riguardano l’aspetto tecnologico o il rispetto per la privacy, che è stato tutelato per quanto possibile.

Prima di tutto occorrerà capire quante persone la scaricheranno, augurandosi che sia un numero importante. Poi bisogna essere consapevoli delle ripercussioni dell’aver reso facoltativo informare il proprio medico nel caso in cui si riceva la notifica. Insieme al fatto che lo scaricamento dell’app avviene su base volontaria, la funzione di tracciamento così come in origine era stata pensata risulta di fatto parziale. A questo proposito non aiuta l’atteggiamento di certe regioni come Piemonte, Veneto e Friuli Venezia Giulia che disincentivano l’uso di Immuni, in favore di app regionali o di procedure di tracciamento solo manuale, come se i due sistemi fossero alternativi.

A ben vedere Immuni ha il grande vantaggio, di aiutare a identificare contatti occasionali, difficili da ricostruire a posteriori con un tracciamento manuale. Occorre quindi ricordare che l’app Immuni da sola non è sufficiente a gestire un’eventuale ripresa della malattia. Oltre all’app devono seguire le altre T (Test e Treat) per completare il processo. Per fare ciò serve che le Regioni siano in grado di eseguire tempestivamente i tamponi sui contatti, perché tempi troppo lunghi potrebbero disincentivare i contatti ad auto-segnalarsi. Inoltre devono individuare luoghi alternativi al domicilio dove poter far trascorrere il periodo di quarantena/isolamento dei positivi a covid-19 e dei loro contatti.

5 Gli anticorpi potrebbero proteggerci?

(Cristina Marrone) L’immunità a Covid 19 è ancora un mistero. I dati acquisiti in questi mesi suggeriscono che la maggior parte dei pazienti guariti produce anticorpi contro Sars CoV 2. «Per chi ha davvero sviluppato la malattia possiamo ragionevolmente pensare che resterà protetto da Sars-CoV-2 per 2-3 anni, come è successo con la Sars, malattia della stessa famiglia, anche se al momento non abbiamo certezze» spiega Alberto Mantovani, immunologo di fama internazionale, direttore scientifico di Humanitas University.

«Il problema è che la stragrande maggioranza delle persone che incontra Covid-19 o non si ammala, o lo fa in modo blando: in questo caso non sappiamo se la risposta immunitaria indotta, di cui la presenza di anticorpi è una spia, sia davvero protettiva o se queste persone rischiano una nuova infezione» ha chiarito Mantovani. Di fatto gli scienziati non sanno ancora se tutti, soprattutto coloro che si ammalano in modo blando, producono anticorpi a sufficienza per garantire una protezione futura.

«Se scopriremo che ci vuole un’alta carica virale per scatenare la risposta immunologica si può pensare che chi non si è ammalato, ma ha avuto solo un contatto con Covid-19, possa non essere immune» sottolinea Pierangelo Clerici, presidente dell’Associazione microbiologi clinici italiani e della Federazione italiana società scientifiche di laboratorio. Questo significa che se davvero ci sarà una nuova ondata di coronavirus in autunno la platea suscettibile potrebbe essere più ampia di quel che si pensasse.

Ma quando si saprà qualcosa in più sulla protezione acquisita? «Nei prossimi mesi, verosimilmente in autunno — aggiunge Pierangelo Clerici — avremo qualche dato in più sulla cinetica anticorpale. Il dramma è che il virus circola solo da tre mesi e non conosciamo ancora il suo stimolo immunogeno per cui non sappiamo quanto è la forza del nostro sistema immunitario a produrre anticorpi. Possiamo scoprirlo solo prelevando puntualmente ogni mese il sangue di coloro che hanno avuto l’infezione, per capire per quanto tempo si mantiene una certa protezione. Questi studi epidemiologici attraverso i test sierologici sono in corso in tutto il mondo ma ci vuole tempo e pazienza per verificare la curva di permanenza degli anticorpi proprio perché i primi malati di Covid-19 risalgono a meno di quattro mesi fa».

6 Abbiamo farmaci in grado di guarirci da Covid?

(Laura Cuppini, in collaborazione con Annalisa Capuano, professore associato presso l’Università della Campania «L. Vanvitelli» ed esponente della Società italiana di farmacologia)
Non esiste ancora una cura specifica contro l’infezione causata da Sars-CoV-2, ma diversi farmaci vengono testati in ogni parte del mondo. In Italia sono 34 le sperimentazioni approvate dall’Agenzia del farmaco (Aifa) e i primi risultati di alcune di queste sono attesi tra la fine di giugno e l’inizio di luglio.

Sono già arrivate notizie positive in merito a tocilizumab, un antireumatico testato sui pazienti con forme moderate e gravi di Covid: a 30 giorni dalla somministrazione si è dimostrata una riduzione significativa della mortalità. «L’esperienza clinica ci ha insegnato molto e oggi conosciamo meglio i vari stadi della patologia - sottolinea Annalisa Capuano, professore associato all’Università della Campania «L. Vanvitelli» ed esponente della Società italiana di farmacologia (Sif) -: siamo in grado di gestirla e questo è confortante in vista di un’eventuale seconda ondata dell’epidemia». Il primo stadio decorre generalmente senza sintomi o con segni lievi (febbre, astemia, dolori muscolari): è la fase in cui il virus cerca di replicarsi e viene contrastato, non sempre con successo, dalle nostre difese innate. Inizia così la cosiddetta «cascata infiammatoria», che però da fuoco amico può diventare fuoco nemico. Il secondo stadio è quello della polmonite bilaterale interstiziale e il terzo consiste nell’infiammazione a livello sistemico che, oltre a rappresentare un rischio in sé, è un substrato fertile per la formazione di microtrombi.

«Le autopsie dei pazienti deceduti hanno mostrato che in molti casi è stato il tromboembolismo diffuso (a cervello, reni, cuore, polmoni) il fattore che ha portato alla morte - continua Capuano -. In questo senso l’introduzione nella terapia di eparina, sia in profilassi che in trattamento, ha probabilmente ridotto di molto il numero di pazienti critici ricoverati in terapia intensiva».

Oggi diversi farmaci, seppure in assenza di dati scientifici conclusivi, si stanno dimostrando efficaci nei vari stadi di Covid: per la prima fase sono indicati antivirali come alcuni farmaci Hiv (per esempio la combinazione lopinavir/ritonavir), oggi prescrivibili anche dai medici di famiglia, e la famosa idrossiclorochina, un antimalarico dalle proprietà antivirali e antinfiammatorie. Nei giorni scorsi è arrivato lo stop dell’Organizzazione mondiale della sanità, per il braccio di trattamento con idrossiclorochina del mega trial «Solidarity». Nonostante ciò, diverse agenzie regolatorie nazionali – come l’Agenzia italiana del farmaco – hanno deciso di proseguire le sperimentazioni. Il medicinale, in Italia, non è più prescrivibile al di fuori degli studi clinici. La decisione dell’Oms è stata poi ritirata, e la sperimentazione sull’idrossiclorochina riavviata, in quanto lo studio pubblicato sulla rivista «Lancet» (che aveva determinato la sospensione del trial) è stato fortemente criticato da diversi esperti in merito alla metodologia dello stesso e all’interpretazione dei dati.

Anche remdesivir, nato come anti-Ebola e non ancora in commercio, ha mostrato un’attività antivirale diretta contro Sars-CoV-2: i risultati parziali delle ricerche sembrano incoraggianti.

Infine nei pazienti a rischio di aggravamento si sperimentano basse dosi di steroidi, in grado di abbassare i livelli dei mediatori dell’infiammazione.

«Se dovesse esserci un nuovo picco in autunno saremo preparati – conclude Capuano -, sia a livello farmacologico che sociale: dovremo però continuare ad essere responsabili, utilizzando le mascherine e rispettando il distanziamento, soprattutto negli ambienti chiusi. Sarà inoltre fondamentale che più persone possibile vengano vaccinate contro influenza e pneumococco, per evitare la confusione diagnostica. Probabilmente arriverà un nuovo calendario dal Ministero della Salute, con indicazioni più ampie in merito alle categorie da proteggere. Ci conforta, in vista del possibile arrivo di un vaccino anti Sars-CoV-2 (comunque non prima del 2021), che il virus non sia mutato, in particolare per quanto riguarda le porzioni di genoma che codificano per l’involucro esterno e la “spike protein”: un fenomeno che, se si fosse verificato, avrebbe reso il virus più potente».

7 Quando arriverà il vaccino contro il coronavirus?

(Laura Cuppini, in collaborazione con Sergio Abrignani, immunologo, ordinario di Patologia generale all’Università Statale di Milano e direttore dell’Istituto nazionale di genetica molecolare «Romeo ed Enrica Invernizzi»)
Un numero impressionante di ricercatori in tutto il mondo sta lavorando per mettere a punto un vaccino contro Sars-CoV-2. L’elenco dei «candidati» è costantemente aggiornato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): ad oggi sono 133, di cui 10 in stadio più avanzato perché hanno raggiunto la fase clinica (composta a sua volta da 3 fasi: I, II e III), volta a dimostrare efficacia e sicurezza nell’uomo. Gli altri 123 sono a livello pre-clinico: vengono testati in laboratorio, anche su animali, per valutarne le caratteristiche e decidere se procedere al passaggio su persone.

I vaccini si dividono in quattro famiglie: quelli basati su vettori virali e Vlp («virus-like-particles»); proteine ricombinanti; acidi nucleici (Dna e Rna); virus inattivati o attenuati. «Tutti i gruppi di ricerca hanno l’obiettivo di indurre anticorpi contro la proteina “spike”, la chiave con cui il virus si diffonde, quindi anticorpi che abbiano la capacità di neutralizzare l’ingresso del virus nelle cellule umane — afferma Sergio Abrignani, immunologo, ordinario di Patologia generale all’Università Statale di Milano e direttore dell’Istituto nazionale di genetica molecolare «Romeo ed Enrica Invernizzi» —. Non avendo tempo per studiare in dettaglio quale sia il cosiddetto “correlato di protezione” dall’infezione, abbiamo assunto che gli anticorpi contro la “spike” prevengano l’infezione ed è probabile che sia davvero così, visto che Sars-CoV-2 induce un’infezione acuta che generalmente si risolve in poche settimane ed è un virus che muta relativamente poco. Se l’ipotesi fosse vera, ritengo che potremmo avere, con tutte le scorciatoie che ci permette l’emergenza pandemica, un vaccino disponibile per tutti a inizio 2022».

Dopo che l’epidemia di Sars-CoV-2 è stata confermata dall’Organizzazione mondiale della sanità a dicembre, in soli 6 mesi sono stati fatti grandi passi avanti. E i risultati sono incoraggianti, come nel caso del vaccino a cui sta lavorando da gennaio l’azienda statunitense Moderna. L’approccio è quello dell’iniezione di un Rna codificante per proteine del virus, Rna che — entrato nelle cellule umane — verrebbe tradotto nella proteina spike; questa dovrebbe poi indurre anticorpi neutralizzanti. Nella fase 1 sembra che il vaccino abbia avuto effetti positivi: Moderna, che collabora con l’Istituto nazionale per le malattie infettive degli Stati Uniti diretto da Anthony Fauci, ha riportato che 8 su 45 persone vaccinate non hanno avuto effetti collaterali importanti e soprattutto hanno sviluppato anticorpi anti-spike con attività neutralizzante. Fauci ha annunciato la fase 3 entro l’estate e che 200 milioni dosi potrebbero essere disponibili per gli americani dall’inizio del 2021. «Quella dei vaccini basati su acidi nucleici è una tecnica più rapida da realizzare, ma anche meno nota rispetto a quelle “classiche”, basate su proteine ricombinanti o virus uccisi — sottolinea Abrignani —: oggi non abbiamo sul mercato alcun vaccino basato su Rna o Dna. La speranza è che in questo caso il metodo possa funzionare».

Molto vicino all’avvio delle prove di efficacia, dopo che la prima sperimentazione di fase I su 510 volontari (partita ad aprile) si è conclusa positivamente, anche il vaccino in sperimentazione a Oxford, basato su vettori virali derivati da un adenovirus, in grado di codificare per la proteina “spike”: la multinazionale farmaceutica AstraZeneca ha concluso accordi per la produzione di 400 milioni di dosi di questo potenziale vaccino anti-Covid, con una (annunciata) capacità di produzione di 1 miliardo di fiale entro il 2021. La prova clinica di efficacia sarà su 5mila volontari sani in Gran Bretagna e probabilmente ne coinvolgerà altrettanti in Paesi, come il Brasile, nei quali l’incidenza di nuovi contagi è ancora alta e quindi si potrà raggiungere un numero di pazienti che dia significatività statistica allo studio. Se, a causa della diminuzione di nuovi casi, dovesse essere difficile avere dati significativi di efficacia, si sta valutando l’alternativa dello Human Challenge Trial, ossia una sperimentazione nella quale alla somministrazione del vaccino a giovani volontari sani segue l’inoculazione del virus. Su questo tema l’Oms ha pubblicato il 6 maggio un documento in cui traccia le linee guida per ricercatori, comitati etici, finanziatori e politici e fissa i «criteri chiave che dovrebbero essere soddisfatti per rendere simili studi eticamente accettabili».

Un’altra strada che si sta tentando di percorrere è quella del vaccino basato su virus inattivato: ci lavorano diversi gruppi di ricerca cinesi (tra cui la società Sinovac). Si tratta di una vecchia tecnica, conosciuta fin dagli albori della vaccinologia. Più difficile, dal punto di vista della sicurezza, la scelta di due gruppi indiani, che stanno operando su virus vivo attenuato.

Ultimo, ma solo perché partito più tardi, il progetto che nasce da un accordo tra due «big pharma», Sanofi e Gsk: l’obiettivo è produrre un vaccino contenente proteina «spike» ricombinante (prodotto da Sanofi), con un adiuvante a base di «squalene (prodotto da Gsk). Una metodologia collaudata, alla base di molti dei vaccini che conosciamo e utilizziamo. La procedura è più lunga e complessa rispetto a quella utilizzata nei vaccini a base Rna o vettori virali. Ha però dei vantaggi: è ampiamente conosciuta e offre una più alta probabilità di arrivare a prodotti efficaci e sicuri.

In Italia si stanno sviluppando due candidati vaccini nell’area di Castel Romano (Roma): uno basato su un vaccino a Dna sviluppato dall’azienda Takis e un altro basato su un vettore adenovirale dell’azienda Reithera. Lo choc per la pandemia di Sars-CoV-2 ha generato uno spirito collaborativo e di generosità senza precedenti fra Stati, aziende e centri di ricerca per la ricerca di un vaccino. Al Global Vaccine Summit di Londra l’Agenzia globale per le iniziative vaccinali (Gavi), ente sovranazionale non profit che ha l’obiettivo di diffondere le vaccinazioni nel mondo, ha raccolto fondi per più di 8 miliardi di dollari per lo sviluppo di vaccini contro Sars-CoV-2. Non solo: i Governi inglese e americano hanno già comprato diritti di prelazione su centinaia di milioni di dosi di possibili vaccini da grandi aziende, come AstraZeneca e Sanofi. I governi europei stanno seguendo la stessa linea ed è probabile che anche l’Italia si muoverà in questa direzione.

8 Il vaccino contro l’influenza è utile in funzione anti-Covid?

(Vera Martinella) Mentre tutto il mondo attende impaziente l’arrivo di un vaccino contro il Covid-19, tutta la popolazione adulta dovrebbe sottoporsi il prossimo autunno a quello antinfluenzale. Una raccomandazione che vale soprattutto per le «categorie a rischio» alle quali già la si consigliava prima dell’epidemia coronavirus: tutte le persone over 65; quelle con malattie croniche (come, ad esempio, tumori, diabete, cardiopatie, malattie polmonari croniche, immunodepressione) e tutti i loro conviventi o chi li assiste. Perché? «Innanzitutto per proteggersi dalle conseguenze molto serie che l’influenza stagionale può comportare per loro — risponde Paolo Bonanni, docente di Igiene all’Università di Firenze e coordinatore Scientifico del Board Calendario per la Vita. — E poi anche anche nell’ottica di un possibile nuovo picco emergenziale di Coronavirus: meno persone si prenderanno la consueta influenza di stagione, meno caos si creerà negli studi dei medici di base e negli ospedali. Se ci vacciniamo tutti, limitiamo il problema di dover distinguere fra infezione da Sars-CoV2 e influenza “normale”, visto che i sintomi sono in gran parte gli stessi».

Senza considerare che, secondo alcuni studi preliminari, il vaccino per l’infezione stagionale potrebbe difendere anche dal Covid-19. O almeno dalle sue complicanze più gravi. Sono solo ipotesi, per ora, che si aggiungono però alla lista dei buoni motivi per cogliere tutti l’occasione di proteggerci.

È però abbastanza prevedibile che, quando aumenteranno febbri e tossi da influenza, medici di famiglia e pediatri verranno sommersi da un’ondata di segnalazioni. Senza considerare il prevedibile intasamento dei pronto soccorso. Per questo è bene anticipare la campagna antinfluenzale a settembre. «Innanzitutto l’invito ai cittadini è sempre quello di recarsi in una struttura ospedaliera solo in presenza di una reale necessità e dopo precisa indicazione telefonica del medico – ricorda Italo Francesco Angelillo, presidente della Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica (SItI) -. Lo abbiamo ribadito più volte durante l’emergenza e il lockdown: chi teme di avere contratto il virus Sars-CoV2 non deve andare al pronto soccorso, ma chiamare il proprio medico di base. E poi è fondamentale predisporre interventi capillari e diffusi nella comunità in sinergia tra medici di famiglia e dipartimenti di prevenzione e distretti delle aziende sanitarie per mantenere alta la vigilanza sul territorio. L’approccio di sanità pubblica è essenziale per identificare rapidamente gli eventuali nuovi casi di coronavirus, per valutare la trasmissione nella comunità, per intervenire rapidamente al fine di contenere la diffusione. Altro passo indispensabile – aggiunge Angelillo, che è Ordinario di Igiene nell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” - è anticipare a settembre la campagna gratuita di vaccinazione contro l’influenza stagionale per i soggetti a rischio (anziani e portatori di patologie croniche) e per tutti i cittadini oltre i 50 anni. È, infine, importante vaccinarsi anche contro lo pneumococco: meno persone così si ammaleranno e ci si potrà concentrare sulle eventuali sindromi legate al Coronavirus».

«Ovviamente non vuol dire che chi è vaccinato abbia rischio zero di contrarre l’influenza, ma l’efficacia è elevata nei confronti dei casi gravi e complicati — sottolinea Paolo Bonanni —. Tra l’altro, anche una “normale” influenza danneggia l’epitelio respiratorio e apre la strada a un più facile attecchimento di altre infezioni batteriche (Pneumococco) e con ogni probabilità dello stesso virus Sars-CoV2. Nelle scorse stagioni hanno colto l’opportunità della vaccinazione (peraltro offerta gratuitamente dal nostro Servizio sanitario nazionale) soltanto il 55% degli ultra65enni e il 25-30% dei pazienti cronici: una copertura che va fortemente incrementata. Le Regioni dovrebbero predisporre ordini di quantitativi superiori a quelli degli scorsi anni per i vaccini anti-influenzali.

Le società scientifiche stanno inoltre chiedendo tempo di abbassare l’età di offerta attiva e gratuita della vaccinazione ai 55 anni, e di vaccinare anche i bambini. Sia perché i bambini piccoli sono a elevato rischio di forme gravi, ma anche perché sono una delle principali fonti di contagio delle persone anziane».

La circolare ministeriale lascia discrezionalità al medico curante di prescrivere il vaccino gratis ad altre persone oltre quelle appartenenti alle categorie a rischio (anziani, malati cronici e chi li assiste). Per gli altri, acquistata in farmacia, costa massimo 15 euro e l’iniezione può essere fatta dal medico di base.

9 Siamo pronti a riaprire le scuole in sicurezza?

(Vera Martinella) A proposito dei più piccoli interviene Paolo Biasci, presidente Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP): «Oltre al vaccino antinfluenzale esteso ai bambini, abbiamo un’unica arma per non correre il rischio di bloccare le attività scolastiche con inutili quarantene a bambini con sintomi di sospetto Covid-19 (indistinguibili dalle altre infezioni respiratorie) e ai loro contatti intra-scolastici: fare diagnosi in modo rapido. Per questo il nostro appello è quello di garantire che in tutta Italia, ai primi sintomi di sospetto, sia possibile eseguire immediatamente il test diagnostico più efficiente (attualmente il tampone naso-faringeo) garantendone una rapida refertazione (24-48 ore). Viceversa, nell’impossibilità di poter differenziare le infezioni, rischiamo il blocco delle attività scolastiche».

E per quanto riguarda l’attività negli studi dei pediatri, com’è l’organizzazione? «Al momento abbiamo ripreso regolarmente ottimizzando il triage telefonico e l’uso di strumenti di consultazione a distanza, se e quando opportuni – risponde Biasci, che esercita come pediatra di libera scelta a Livorno -. Lavoreremo in sicurezza garantendo spazi e tempi diversificati per le visite ai bambini sani (bilanci di salute) e agli ammalati: pertanto, continuiamo a chiedere ai genitori senso di responsabilità nel rispettare le indicazioni fornite per mantenere un accesso ordinato ai nostri studi. Se tornerà lo stato di emergenza sanitaria tornerà a essere raccomandabile che la visita al bambino con sintomi di sospetto avvenga dopo aver rapidamente (24-48 ore) verificato lo stato di positività o meno al SARS-CoV2 con il tampone naso-faringeo. Utilizzeremo sempre mascherine, guanti e camici monouso per evitare di essere contagiati da inconsapevoli portatori asintomatici e di diventare vettori di contagio a nostra volta».

Sulla stessa lunghezza d’onda è il presidente della Società Italiana di Medicina Generale, Claudio Cricelli, che raccomanda d’estendere la vaccinazione antinfluenzale a tutta la popolazione sopra i sei mesi di età. «Bisogna certo mantenere la distribuzione gratuita agli over65, ai malati cronici (che ormai includono molti over50) e alle persone “fragili” – conclude Cricelli, che è docente alla Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva del Policlinico Gemelli a Roma -. Per questo proponiamo di ampliare la vaccinazione gratuita agli over 50, specie quelli con patologie croniche, come del resto consiglia l’Organizzazione Mondiale della Sanità. E suggeriamo ai titolari di attività produttive, commerciali e dei servizi pubblici e privati d’incoraggiare i propri dipendenti e collaboratori a vaccinarsi.

Testi: Margherita De Bac, Laura Cuppini, Cristina Marrone, Vera Martinella, Martina Pennisi, Simona Ravizza

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