3 giugno 2020 - 07:21

Beppe Sala: «Serve un nuovo socialismo, la sinistra recuperi un’idea politica di società»

Il sindaco di Milano: «La mia città prima della pandemia stava volando e quando cadi dall’alto ti fai più male. Ora c’è una risposta, ma il blocco del turismo pesa»

di Aldo Cazzullo

Beppe Sala: «Serve un nuovo socialismo, la sinistra recuperi un'idea politica di società»
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Beppe Sala, il suo nuovo libro si intitola «Società: per azioni». Cosa significa?
«È un titolo provocatorio. In questi anni la società è stata il vaso di coccio tra l’economia e la politica. È il momento di pensare alla società come a una creazione di valore: non più vaso di coccio, ma attore. La politica si sta occupando di amministrazione; la sinistra stessa sembra limitarsi ad amministrare, sia pure in modo diligente. Ma dobbiamo fare di più: riflettere sulla società del futuro, sulla trasformazione del lavoro, sulla rivoluzione che abbiamo di fronte».

Lei scrive che oggi ci sono troppi lavoratori poveri. E ci sono lavoratori inconsapevoli. Cosa intende?
«Ogni giorno, anche solo esprimendo le nostre preferenze e i nostri commenti online, diventiamo dati, e contribuiamo a indirizzare i sistemi economici. Paradossalmente dovremmo essere pagati per questo; TikTok sta pure cominciando a farlo... I padroni della Rete diventano superdistributori. È un sistema malefico: da una parte inducono i nostri desideri; dall’altra acquisiscono le aziende che producono gli oggetti che desideriamo; infine ce li portano a casa».

La soluzione potrebbe essere il reddito di cittadinanza?
«Sono stato tra i primi a sinistra a dire che dovevamo dialogare con i 5 Stelle. Ho una consuetudine con Beppe Grillo: ogni tanto ci parliamo, ci vediamo. Ha idee interessanti. Ma preferisco il credito di cittadinanza. Se parliamo di reddito, siamo sempre alla redistribuzione; non incidiamo sui meccanismi di produzione della ricchezza. Quando invece riconosciamo un credito, anche a fondo perduto, a un giovane che ha una buona idea, lo mettiamo in condizione di creare ricchezza e lavoro per sé e per la comunità».

Ora i soldi, grazie all’Europa, arriveranno.
«Però, più che per i sussidi, serviranno per gli investimenti nell’ambiente e nel digitale. Dobbiamo prepararci a spenderli bene. Elaborare progetti. Non facciamoci illusioni: l’autunno sarà durissimo».

È preoccupato anche per Milano? Cosa cambierà con la pandemia?
«Quando cadi dall’alto, ti fai più male. Milano stava volando. Ora la città risponde: ogni giorno riapre un cantiere. Abbiamo fatto un accordo con Wizz Air, che ha scelto Malpensa come hub per l’Europa del Sud: con l’indotto sono mille posti di lavoro. Ma molti di più rischiano di saltare, con il blocco del turismo, che impiegherà due anni a riprendersi. Dobbiamo inventarci di tutto per non perdere i giovani. Milano è una delle più grandi città universitarie al mondo, con 200 mila studenti. Ma Milano è una città costosa. I ragazzi vengono anche perché sanno che poi trovano lavoro. Dobbiamo far sì che restino».

Milano stava volando ma molte cose non sono sue. I grattacieli simbolo della rinascita sono degli sceicchi. Persino il Milan e l’Inter non sono più milanesi. E le disuguaglianze sociali aumentano.
«Nel libro cito il paradosso di Jevons: più ricchezza si crea, più si alimenta la povertà. Forse la ricchezza ha proprio bisogno di aumentare la dimensione della povertà, se vuole crescere e stiparsi in immense concentrazioni. Tutto avviene nelle città. Un tempo avevamo le città-Stato; ora abbiamo le città-mondo. Io credo in una città inclusiva. Che tiene dentro tutti, anche gli ultimi. Mi ha colpito moltissimo una scritta che ho visto su un muro di periferia».

Cosa diceva?
«La loro verità comincia dove finisce la tua. È una frase poetica e disperata. Esclude il “noi”. Contrappone “loro”, il sistema, a “te”, la persona».

Lei fa parte del sistema.
«Certo. Non posso e non voglio abbatterlo. Ma posso e voglio cambiarlo. Anche recuperando idee e parole che abbiamo abolito e relegato nel passato».

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Lei scrive di un nuovo socialismo. Ci crede davvero?
«Sì. Ricordo quando in tv assistetti alla fine del socialismo italiano: la scena delle monetine fuori dal Raphael».

Era la fine di Craxi. Su cui però lei nel libro non si esprime. Perché?
«Non voglio riaprire un dibattito che sarebbe infinito. Dico che il socialismo non appartiene alla storia, ma all’avvenire. Solo in Italia è considerato una parola morta. Altrove non è così. Avremo il Recovery fund: usiamolo per prenderci cura dei cittadini e per rilanciare la politica industriale. Le risorse arriveranno; servono nuove idee. Siamo a un cambiamento d’epoca».

Lei cita più volte Moro, e mai Berlinguer. Perché?
«Perché Berlinguer ha trovato eredi; magari maldestri, ma li ha trovati. L’eredità di Moro non l’ha rivendicata nessuno. Io non ho mai votato Dc, però ho avuto un padre democristiano. La Dc era il centro, non inteso come punto mediano di una retta, ma come punto centrale di una sfera. Moro aveva capito che la Dc poteva conservare la sua egemonia solo attraverso la mediazione, prima con i socialisti poi con i comunisti. Dopo di lui si è tornati a uno schema orizzontale, dall’estrema destra all’estrema sinistra, che ora non significa più molto».

Lei è davvero un uomo di sinistra? Il suo primo incarico pubblico fu city manager di Letizia Moratti.
«Mi sento profondamente un uomo di sinistra. La storia della sinistra italiana viene raccontata come il romanzo della delusione: come se, una volta al governo, ci si dovesse limitare a gestire l’esistente. Ma io voglio una sinistra che recuperi un’idea politica di società. Oggi la sinistra è in grado di rappresentare il 40 per cento degli italiani, quel che serve per governare? Temo di no. Per questo deve cambiare. Un tempo la sinistra era rappresentanza, la destra era appartenenza. Oggi la destra rappresenta, magari male, una parte importante della classe lavoratrice. Dobbiamo capire come fare per rappresentarla noi. Lo spazio è enorme».

Cosa votava nella Prima Repubblica?
«Quando ero bocconiano, Partito repubblicano. Poi radicale. Quindi per gli antenati del Pd. Compreso il Partito comunista».

Cosa pensa di Conte?
«Penso che stia facendo più di quanto ci si poteva attendere da una persona che ha esordito in politica da premier. Ma gli consiglio di valutare se chi gli sta attorno è in grado di gestire l’autunno drammatico che ci attende».

Pensa a un altro governo, sempre con Conte premier, ma con nuovi ministri?
«Sì. Credo sia inevitabile. Ogni partito deve mettere in campo i migliori: non necessariamente tecnici; persone che abbiano una storia alle spalle, che abbiano gestito organizzazioni complesse. Vale per i 5 Stelle, ma anche per il Pd». E lei cosa farà? «Il sindaco, ovviamente».

Nel libro racconta la sua malattia.
«Senza la malattia non sarei qui. Mi ha cambiato profondamente. Avevo 39 anni ed ero molto concentrato su me stesso. Impiegarono tre mesi a diagnosticarmi un linfoma non Hodgkin. Mi si era tappato un orecchio dopo un’immersione e non si riusciva a capire perché. Vede questa cicatrice sul collo? Mi tolsero un linfonodo. L’esame istologico era negativo, ma il medico mi disse: non mi fido. Mi tolsero un altro linfonodo, dalla schiena. E capirono. Mi sentii gelare il sangue: mio padre era morto della stessa malattia».

Suo padre non reagì, si lasciò morire.
«Papà aveva un fondo di depressione, a differenza di mia madre, che è forte, energica, positiva, e l’ha sempre un po’ salvato. Con mio padre non ho mai parlato molto. Mi ha insegnato con l’esempio. Casa e bottega: una piccola azienda di divani letto, in Brianza. Ricordo quando venne un creditore che non poteva pagare; papà rispose dandogli altri soldi. Ma quando si ammalò, rinunciò a combattere».

Lei cosa fece?
«Mi affidai del tutto ai medici. Non andai neppure a leggere cosa fosse un linfoma. Chiesi però aiuto a uno psicologo. Un sociologo ebreo, cui sono molto legato».

Nel libro lei racconta una notte di panico.
«Mi svegliai di soprassalto: non riuscivo a respirare, sentivo il cuore sul punto di fermarsi. Mi trascinai in bagno, madido di sudore. Erano le due di notte. Chiamai lo psicologo. Mi rispose. Mi disse di chiudere gli occhi, di respirare. Fu quasi una seduta di ipnosi al telefono. Mi addormentai senza accorgermene, senza neppure spegnere il cellulare. Mi svegliai disteso in bagno. Impiegai minuti a rialzarmi. Ma il peggio era passato».

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