Leonardo Caffo​, co-direttore di Animot, è docente di Ontologia del Progetto al Politecnico di Torino. Ha fondato  Waiting Posthuman Studio, unità di ricerca fra filosofia, architettura e arte; dal 2017 insegna alla  Naba di Milano e alla Scuola Holden di Torino.  Nel 2015 ha vinto il Premio nazionale  Filosofia Frascati. Ha scritto “A come Animale: voci per un bestiario dei  sentimenti” (Bompiani 2015), “La vita di ogni giorno” (Einaudi 2016), “Fragile umanità. Il postumano  contemporaneo” (Einaudi 2017) e “Vegan, un manifesto filosofico (Einaudi 2018)”.

Caffo,  come scrive nel suo "Manifesto per un dopo che era un primo",  l'uso ricorrente dell’espressione “tornare al mondo normale” non faceva i conti con temi della  disgregazione sociale, della povertà, dello sfruttamento animale e della distruzione dell’ambiente.  Quali sono le problematiche ulteriori che secondo lei sono state evidenziate o  accelerate dalla pandemia?      

«La pandemia, a mio avviso, ha mostrato tutta la nostra impreparazione dinanzi a un reale stato di  crisi che sia conseguenza dei nostri comportamenti scellerati; una crisi che sia davvero una crisi  dunque, che metta in discussione come mangiamo, come viviamo, come consumiamo, come  speriamo. La normalità non implica una qualità ma una prassi, dunque una quantità: se tuttavia il  Covid 19 è stato percepito come non normale, essendo la conseguenza ovvia del nostro stile di  vita ordinario, allora anche la causa non poteva essere normale. Dunque “tornare alla normalità”  significa, al contrario, fomentare la non normalità cercando di mettere delle pezze ovunque invece  di fare dei cambi radicali. La gestione del dopo Covid 19 è confusa, tra passaporti sanitari e  assistenti volontari alla pubblica sicurezza, perché si sta tentando di fare finta che il virus sia  stato un incidente di percorso: mentre invece era il percorso stesso. Tra deliri di filosofi che  equiparano lezioni online e fascismo e politiche coercitive e reazionarie all'orizzonte si vede di  tutto tranne che un piano per accelerare su soluzioni reali alle condizioni di possibilità di questo  caos: ecologia, produzione alimentare alternative, forestazione, ripopolazione del mezzogiorno  tramite il lavoro in remoto, cambio radicale del rapporto col mondo selvatico, welfare  rivoluzionato e assistenza al non lavoro, scuole all'aperto al Sud. E viene davvero da chiedersi a  cosa sia servito tutto questo dolore, e quello che ancora dovrà venire”.  

Di fronte a queste problematiche ci troviamo di fronte ad un bivio in attesa della prossima  pandemia già ampiamente preannunciata? Quali distopie e quali utopie?

«Il mio libro, Dopo il Covid 19 (nottetempo), è effettivamente un ricorso diffuso all’utopia:  sappiamo tutti che da domani non diventeremo né vegani, né campagnoli, né tanto meno capaci di  evitare la produzione di combustibile fossile o plastica. Non diventeremo così, ma dovremmo: nel  senso che utopia e distopia si tengono per mano di continuo e se non saremo in grado di investire  immediatamente in imprese, educazione, modelli strategici davvero alternativi,  presto o tardi,  rischieremo di soccombere sotto il peso del vecchio e ormai ingestibile mondo.  La prossima pandemia non va aspettata ma evitata o quantomeno pianificata nelle sue soluzioni: gli  spillover sono all'ordine del giorno, immediatamente dovremmo cambiare il nostro rapporto con  gli animali. Abbiamo da subito la possibilità di cambiare la mobilità, e invece immediatamente i  comuni si preoccupano solo di rimettere la sosta a pagamento, incentivare la diminuzione del peso  burocratico sulle imprese, e invece già ci vogliono decine di moduli per avere del suolo pubblico  che a Berlino regalano d’ufficio, potremmo incentivare la produzione di cibo alternativo con una  meat tax (tassa sulla carne), invece la preoccupazione generale e sostenere vecchi e assurdi  modelli produttivi, potremmo fare lezioni all’aperto sostitutive delle ore scolastiche perse, invece  siamo più bravi a fare ripartire un campionato di calcio (e parlo da tifoso del Napoli) che la  struttura educativa di un Paese. Talvolta mi viene il sospetto che con “distopia” non chiamiamo  soltanto la nostra incapacità gestionale, con “utopia” invece tutto ciò che potremmo fare ma non  abbiamo nessuna voglia di fare».

 Quali pensa siano le azioni più importanti da mettere in campo con urgenza a partire dal mondo  degli intellettuali?  

«Qui voglio essere molto pratico: le università non funzionano più, soprattutto i dipartimenti  umanistici. Il reclutamento degli insegnanti si basa su modelli di pubblicazioni astruse e illeggibili,  alimentano quelle che sono a tutti gli effetti mafie gestionali, i più penalizzati sono gli studenti.  Anche le scuole, ma sulle università il ragionamento è più urgente è profondo. Bisogna richiedere  immediatamente che il valore del titolo legale venga abolito, liberarci dall’idea che conti un pezzo  di carta quando invece conta ciò che si sa fare davvero, iniziare a fondare accademia alternative sul  modello della Scuola Holden, che reputo straordinaria, ma orientate a ibridazioni educative tra cultura,  agricoltura, arte contemporanea, economia gestionale. Delle scuole e accademie dove sapersi  orientare in un bosco o fare una tesi di laurea con le note fatte bene contino allo stesso modo, una specie di Scuola Walden per dirla col titolo del capolavoro di Thoreau dove piantare un seme,  mettere un bullone, o tradurre Ovidio, siano tutte cose che compongono l’apparato umano della  specie che verrà».

*Regista ed artista visiva

Rinascimento 2.0 a cura di Laura Milani, Irene Dionisio e Marco Zappalorto, è un progetto che intende generare - attraverso testimonianze autorevoli in differenti settori culturali - nuove domande e porre al centro del discorso la visionarietà e la creatività come strumenti indispensabili di innovazione per il benessere sociale rispetto al cambiamento epocale che stiamo attraversando.

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