RITRATTI

«L’enigma Draghi». Dalla lira in pericolo alla Bce: quel che so dell’ex governatore

«L'enigma Draghi». Dalla lira in pericolo alla Bce: quel che so dell'ex governatore

Non so quanto io posso aggiungere a mo’ di introduzione a questo libro che si legge volentieri per la ricostruzione che fa del suo protagonista sapendo coglierne i tratti essenziali, se non confermarli, sulla base della personale conoscenza e delle esperienze comuni che ho vissuto con lui sin dai tardi anni ‘80, quando ci conoscemmo. E ci conoscemmo a Washington, dove lui era direttore esecutivo della Banca mondiale e dove io mi recai più volte per incontri ufficiali quando ero ministro del Tesoro. Ci capitò sin da allora di passare del tempo insieme, di scambiarci idee e di constatare consonanze. Quando poi, da presidente del Consiglio nel 1992, me lo trovai accanto nella squadra del Tesoro, dove aveva assunto nel frattempo la responsabilità della direzione generale che gestiva il debito pubblico, fu davvero un ritrovarsi; ed accorgersi che ci capivamo al volo.

Al Tesoro

È vero quello che scrive Marco Cecchini, Mario Draghi non fu partecipe di tutte le decisioni che allora adottammo. Questo non significa che lui ed io non ci sentissimo, né cancella il suo ruolo su questioni cruciali come quella sulla contrazione (o meno) di nuovi prestiti nelle settimane che precedettero la svalutazione di settembre. Il Regno Unito si impiccò con le sue stesse mani, contraendo un gigantesco debito in sterline alla fine di agosto. Noi respingemmo, negli stessi giorni, offerte in sé più che vantaggiose. In quei frangenti, ed ancora sette anni dopo, quando io mi ritrovai Ministro del Tesoro con lui ancora al suo posto, ebbi modo di sperimentare le sue qualità, quelli che qui sto chiamando i suoi tratti essenziali, e la sintonia che c’era fra noi.

Era difficile vederlo perplesso, affrontava sempre le situazioni con sicurezza, direi quasi con distacco. Da dove gli venivano questi suoi modi? Gli venivano dalla competenza e dall’uso che ne faceva giungendo sempre preparato all’appuntamento con le scelte e con i fatti. A quel punto sapeva ciò che serviva fare e lo diceva, ne convinceva i titubanti, imponendo la superiorità dei suoi argomenti. Ed era in questo che identificava il suo dovere istituzionale, non nell’essere al servizio di aprioristiche scelte politiche. Io ero, davanti a lui, l’autorità politica, ma mai questo ha pesato nei nostri rapporti: ragionavamo allo stesso modo, giocavamo allo stesso modo, per entrambi aveva ragione chi aveva ragione. E una volta capito ciò che serviva, ciò che serviva andava fatto. Senza patemi e senza tentennamenti. Fu così, fra l’altro, che, al di là della sua presenza o meno nelle sedi decisionali finali, fu vicino a me e a Piero Barucci nel fermare nel 1992 il disegno delle «superholding», che avrebbe bloccato sul nascere il processo di privatizzazione delle partecipazioni statali.

Memore di tutto questo, non fui affatto stupito quando, diversi anni dopo, avrebbe fatto la sua famosa uscita a nome della Banca centrale europea, quel whatever it takes che fermò la valanga dei mercati, pronta ad abbattersi sull’euro in un momento di grave difficoltà dell’eurozona. Non me ne stupii, perché era chiaramente ciò di cui era convinto e di cui evidentemente aveva a quel punto convinto se non tutti, la maggioranza dei dubbiosi nel suo Board. Ed ero certo che lo aveva fatto avvalendosi non del piglio napoleonico di un condottiero militare, ma di argomenti, accuratamente preparati, sull’inerenza al mandato della Bce di misure pur interferenti con la politica finanziaria e fiscale, quando esse fossero essenziali per garantire stabilità e convergenza ai tassi di interesse.

A Francoforte

Non dimentichiamo che, da allora, per ben due volte il Tribunale costituzionale federale tedesco ha sollevato davanti alla Corte di Giustizia europea la questione della compatibilità con il Trattato e con le competenze degli Stati membri delle misure predisposte prima del whatever it takes (vale a dire le cosiddette outright monetary transactions, peraltro mai messe in pratica), e poi del massiccio quantitative easing, durato ininterrottamente per mesi sino al dicembre 2018 (e poi ripreso, in misura più limitata, nel settembre 2019). Ebbene, in entrambe le occasioni la Corte di Giustizia ha respinto la questione e chi legga le due decisioni non può non riconoscere in esse gli argomenti che proprio la Banca centrale era venuta elaborando e che più volte Mario Draghi aveva con fermezza fatto valere: se una misura è di politica monetaria, e quindi di competenza della Banca, o di politica economica o fiscale, e quindi di competenza degli Stati, non lo si può decidere in base all’ambito in cui va a ricadere, giacché l’ambito è in entrambi i casi il medesimo, quello lato sensu finanziario. Lo si può decidere solo in base ai fini che concretamente persegue; e se la Banca adotta operazioni che contrastano un’inflazione troppo bassa e tassi sui titoli divergenti e insensibili al tasso di riferimento, tali operazioni, si tratti anche di acquisti rilevanti di titoli pubblici (ovviamente sul mercato secondario), rientrano nella politica monetaria.

Civil servant

Io non ho mai parlato con Mario Draghi di queste due sentenze. Ma nel leggerle, e nel soppesare gli argomenti esposti in esse con una logica stringente che alla fine non lascia spazio a replica, ho pensato a lui come loro fonte prima. È di sicuro stato lui il primo a convincersi che era possibile ricondurre operazioni del genere entro «i confini del mandato» della Banca centrale, in modo da sottrarle a critiche pregiudiziali che le avrebbero impedite. Ed è di sicuro stato lui che per primo ha costruito l’impianto argomentativo che gli ha dato la certezza di essere nel giusto, e quindi di far valere ciò che in quel momento serviva. E ciò che serve — allora come in passato — a quel punto semplicemente si fa. Insomma, nel whatever it takes e in ciò che ne è seguito non ho trovato un inatteso cultore di «o la va o la spacca». Ho ritrovato la persona che conoscevo.

Prima di concludere, l’autore si chiede che cosa farà Draghi in futuro e la domanda è in primo luogo calibrata sulle aspettative che hanno preso corpo in Italia di una sua disponibilità ad alti incarichi pubblici da noi. L’autore sa che Draghi, sempre rispettoso verso la politica e ben capace di negoziare con i suoi esponenti (la trama dei suoi rapporti con la Cancelliera Merkel fu decisiva per far passare, nello stesso board della Bce, il quantitative easing), vede in essa «tratti essenziali» troppo diversi dai suoi per pensare di farne parte. Pur consapevole che anche fra i politici possono esservi persone più che apprezzabili, considera i vincoli e le necessarie inclinazioni partigiane della politica estranei alla sua idea di missione pubblica e alle valutazioni e ragioni che devono ispirarne l’esercizio. Va detto tuttavia che ora, nell’Italia prostrata dal coronavirus, sarebbe difficile a chiunque lasciare inascoltato un appello dell’Italia ai suoi figli migliori, affinché facciano in qualunque ruolo ciò che è utile e possibile. Ed è poi vero, a prescindere da ciò, che quanto vale per i titolari di incarichi di governo, non vale per il Presidente della Repubblica. Questi infatti viene generalmente dalla politica, ma deve subito riorientarsi verso la terzietà che è propria delle istituzioni di garanzia; e che, pur non essendo quella a cui Draghi è abituato, gli è certo meno lontana della politique politicienne.

Nelle ultime parole del libro l’autore lascia la domanda giustamente aperta.

Nota: Giuliano Amato è giurista accademico, due volte presidente del Consiglio e oggi giudice costituzionale. Questa è la sua prefazione de «L’enigma Draghi», Fazi editore, ora in libreria. E’ l’ultimo volume di Marco Cecchini, giornalista e scrittore

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