26 maggio 2020 - 23:57

Investimenti: quelli più consigliati dai consulenti indipendenti

di Milena Gabanelli e Giuditta Marvelli

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Saremmo disponibili a pagare per un consiglio professionale su come investire i nostri soldi in questo momento di grande incertezza economico-finanziaria? Un’indagine Consob del 2019 rivela che l’80 per cento di chi ha ricevuto una qualche forma di consulenza risponde di non avere alcuna idea di come funziona il meccanismo. Vediamolo. Il mercato del risparmio, in Italia come nel resto dell’Europa continentale, è dominato da banche e assicurazioni che hanno sempre venduto al cliente sia prodotti che consulenza «implicita». Vuol dire che dentro alla voce «commissione» che il cliente paga per acquistare azioni, obbligazioni o fondi assicurativi, una parte va a remunerare il venditore. Una formula che lascia aperta la porta a conflitti di interesse – ti vendo quello che conviene a me, anche se non sei in grado di capirlo né di sopportarne la rischiosità – e che fa pensare al cliente di non aver pagato anche per il consiglio.
Le nuove regole

Negli ultimi anni nuove norme europee (Mifid e Mifid 2) hanno messo le basi per un cambiamento, rendendo obbligatoria sia la profilazione del cliente in base alla sua capacità di rischiare, sia una maggiore trasparenza sulla rendicontazione dei costi e sulle modalità di remunerazione dei vari servizi, consulenza compresa, da parte di tutti gli intermediari. Inoltre, con undici anni di ritardo rispetto alle legge, è stata istituzionalizzata per la prima volta la figura del consulente «puro», cioè di chi vende solo consigli finanziari, facendosi pagare a parcella. Esattamente come fanno gli avvocati o i commercialisti. In teoria banche e sim (società di intermediazione mobiliare) possono optare per la consulenza a parcella in base alla Mifid, ma in realtà in Italia i pochi esempi riguardano soprattutto clienti istituzionali o con grandi patrimoni. Oppure servizi di roboadvisor (consulenza finanziaria digitale basata su formule matematiche o algoritmi).

I consulenti indipendenti

Dal dicembre 2018 esiste un Albo, diviso in tre sezioni, che raccoglie e codifica i professionisti del consiglio, ovvero coloro che fanno un esame di abilitazione e che sono vigilati da un organismo apposito (Ocf) su cui vigila a sua volta la Consob. La prima sezione è la più numerosa e conta 52.943 consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede: sono gli ex promotori finanziari delle reti o delle banche. Fra questi, 33.700 hanno un mandato da una rete o da una banca, e quindi vendono solo i prodotti che hanno in catalogo. Negli altri due elenchi dello stesso albo troviamo invece 268 consulenti autonomi e 38 società di consulenza.

Per iscriversi occorre possedere requisiti patrimoniali (un’assicurazione con certi standard), organizzativi, di onorabilità (non avere pendenze penali) oltre alla condizione di indipendenza. Devono cioè autocertificare di non avere alcun legame con soggetti finanziari che potrebbero spingerli a suggerire un determinato investimento. Un esempio banale: anche se mio marito o mia moglie lavorano in banca devo dirlo. Il loro lavoro consiste nel farsi pagare il consiglio, perché non vendono prodotti.
Come lavorano

Analizzano la situazione patrimoniale del cliente, non solo considerando gli investimenti ma anche la copertura assicurativa o la previdenza e costruiscono una ricetta personalizzata. Poi seguono il cliente nella trattativa con la banca dove tiene i soldi, per finalizzare nel modo migliore l’acquisto o la vendita degli strumenti consigliati.

Quanto costa il «consiglio»

La parcella varia in base alla complessità del portafoglio da costruire o da disfare, nel caso in cui si desideri cambiare un investimento fatto precedentemente. E quindi, come accade per avvocati e commercialisti, in base al tempo che il consulente deve dedicare. In soldoni parliamo di una cifra che può oscillare da un massimo dell’1% del patrimonio fino allo 0,4%. In Gran Bretagna, dove il modello della consulenza indipendente è maggioritario, uno studio del 2016 segnalava parcelle orarie tra le 150 e le 195 sterline. A questi costi va aggiunto quello degli strumenti e delle transazioni. Il consulente indipendente lavorerà affinché siano molto bassi: consigliare strumenti costosi in linea generale è contro il suo interesse. Invece per quel che riguarda gli intermediari, nei rendiconti di pagamento troviamo spesso un costo complessivo (mettiamo il 2%) che comprende anche la remunerazione del venditore, nonostante sia obbligatorio segnalarla in modo chiaro. Nel primo anno di applicazione della Mifid 2, infatti, la Consob ha richiamato gli intermediari ad applicare la disciplina. La pandemia ha ritardato la consegna degli ultimi rendiconti. Il 7 maggio scorso la Consob ha mandato una nuova raccomandazione sull’importanza delle regole che impongono comunicazioni trasparenti sui costi.

Il costo dei prodotti finanziari

In campo finanziario i costi sono l’unica certezza, quindi partire con un portafoglio adatto alle mie esigenze di rischio e di rendimento e confezionato con strumenti efficienti e dal costo contenuto sarà un vantaggio, mettendo in conto che durante la strada possono esserci periodi in cui perdo, come è accaduto negli ultimi mesi. Se oggi investo un capitale di 12 mila euro per metà sui mercati azionari e per metà sui mercati obbligazionari globali a un costo dello 0,3%, fra dieci anni (ipotizzando lo stesso andamento di mercato degli ultimi 19 anni), avrò in tasca 19.600 euro. Mentre lo stesso investimento, utilizzando un mix di prodotti più costoso (1,5%) renderebbe 17.300 euro, vale a dire oltre 2.200 euro in meno. Il calcolo è stato fatto da AdviseOnly.

Quali sono i prodotti consigliati

Gli Etf, exchanged traded fund, sono uno degli strumenti più consigliati dai consulenti indipendenti anche a chi ha 5 mila o 10 mila euro da investire. Gli Etf sono fondi quotati (come le azioni) che riproducono nel modo più fedele possibile un indice di mercato. Vuol dire grande diversificazione e riduzione del rischio (se un titolo va male, un altro andrà bene). I costi di gestione possono essere oltre dieci volte inferiori rispetto a quelli dei fondi tradizionali, proprio perché non devono remunerare né un gestore né una rete di vendita.

Etf e fondo tradizionale a confronto

Prendiamo l’S&P 500, il paniere dei 500 titoli più importanti quotati a Wall Street: gli Etf che lo «copiano» offrono agli investitori la possibilità di comprare l’indice della Borsa americana con commissioni di gestione che non superano lo 0,15%, i più economici si accontentano addirittura dello 0,05%. Con un fondo tradizionale il costo sarebbe stato tra l’1,5% e il 2,5%, non sempre ripagato da una performance migliore di quella dell’indice. Dall’analisi Morningstar di giugno 2019, negli ultimi dieci anni il 91,2% dei fondi disponibili per gli investitori europei che investono sulla Borsa Usa non è riuscito a battere gli Etf che riproducono l’indice di WallStreet.

A conti fatti, quindi, se si considera il peso dei costi in un lasso di tempo molto lungo – e che comprende anche periodi di calo delle quotazioni come per esempio gli ultimi sei mesi del 2018 – la maggior parte dei gestori attivi che propongono all’investitore una strategia per battere Wall Street, cioè il mercato più efficiente del mondo, raramente riesce nell’impresa.
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