22 maggio 2020 - 17:01

Covid, il papà con il figlio disabile al 100%: «Noi abbandonati, sarebbe stato meglio sentirsi dire no»

Dirigente di azienda, sposato con due figli, di cui uno ha 28 anni e deve essere assistito 24 ore su 24: crisi epilettiche, notti in bianco, quasi nessuna capacità di relazionarsi. «Durante l’emergenza siamo rimasti soli»

di Valentina Santarpia

Covid, il papà con il figlio disabile al 100%: «Noi abbandonati, sarebbe stato meglio sentirsi dire no»
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«Anche sentirsi dire ‘No, ci spiace, non possiamo fare niente per voi’ sarebbe stato meglio. Meglio di questo silenzio, del nulla, dell’aspettare invano che durante una conferenza stampa, la spiegazione di un decreto, un intervento ufficiale del premier Conte in tv, fossimo nominati. Il niente ci ha schiacciato». Gian Luca Rocca, che ha scritto una lettera al Corriere, ha 58 anni, è un dirigente di azienda, ha una bella moglie, Marianna, più giovane di un anno, e due figli, Fabrizio, di 30 anni, e Stefano, di 28, disabile al 100%. Ed è lui, il suo ragazzone, il suo punto debole. Quello che nell’emergenza Covid è diventato sempre più difficile da gestire e da organizzare, in quell’indifferenza che lui e la moglie denunciano, come già fatto da tante altre famiglie.

Di cosa soffre Stefano?
«Della sindrome di Lennox-Gastaut, in sostanza è un autistico/epilettico, che ha bisogno di assistenza 24 ore su 24. Stefano non parla, capisce solo poche frasi semplici, cammina ma non riconosce i pericoli. E due volte a settimana ha crisi epilettiche, almeno una volta a settimana la passiamo in bianco».

Da quanto tempo vivete con questa sua disabilità?
«Da sempre, a sei mesi abbiamo scoperto che c’era qualcosa che non andava e siamo partiti con gli accertamenti. Le abbiamo provate tutte, la prima diagnosi ce l’hanno fatta a Parigi, poi siamo entrati in un protocollo sperimentale delle Molinette di Torino, siamo sempre stati molto attivi nel cercare una cura per lui, ma non ne abbiamo trovato».

Chi vi aiuta a gestirlo?
«Fino a due anni fa il fratello ci dava una mano, ora è andato a vivere per conto suo, com’è giusto. E poi Stefano frequentava a giorni alterni un centro diurno e una comunità alloggio, sempre dalle 8.30 alle 16. Era fondamentale perché anche mia moglie lavorava, fino ad aprile, alla Cna, e non ci era possibile stare con lui tutto il giorno. Quando è arrivata l’epidemia, Marianna è stata messa in pensione con opzione donna e io in smart working, e questo ci ha aiutato, ma solo relativamente».

Cosa intende?
«Che siamo stati lasciati completamente soli. I centri sono stati chiusi, ma nessuno ha pensato che famiglie come noi avessero bisogno di aiuto: anche un assistente domiciliare per tirare un po’ il fiato ci avrebbe aiutato, e invece niente. Ho chiamato l’assistente sociale del Comune, ho scritto una Pec a tutte le autorità, e solo dopo infinite richieste mi sono sentito rispondere: ‘Noi non sapevamo nulla’. E così ci hanno concesso di far andare Stefano nel centro 3 ore a settimana, un’inezia ma meglio di niente».

Com’è possibile che non si fossero resi conto delle vostre necessità?
«È sempre la stessa storia. I disabili sono gli ultimi della fila, quelli di cui nessuno si ricorda, figuriamoci nelle situazioni di emergenza. Tutto quello che ci viene concesso viene considerato una regalia, come se ci facessero un favore con i soldi pubblici. Sono 600 mila i disabili gravi in Italia, ma non contano. Pochi conoscono i diritti dei disabili, e anche in piccoli paesi come Borgaro Torinese, dove abitiamo, nessuno se ne interessa. Dopo l’ennesima protesta, ieri ci hanno concesso di portarlo al centro due giorni a settimana: non era difficile, visto che sui 40 ragazzi che frequentano solo 4-5 casi sono gravi e si possono gestire in sicurezza».

Quali sono i sentimenti che ha provato?
«Rabbia, amarezza, sconforto. Mi sembra davvero assurdo che bisogna arrivare a minacciare di denunciare agli organi di stampa per ottenere qualcosa. Non dico a marzo, quando eravamo nel pieno dell’emergenza, ma almeno il mese dopo, quando il governo ha iniziato a organizzare le cose, potevano ricordarsi di noi. Sembra che stiamo lì ad elemosinare. Invece vogliamo solo quello che ci spetta. Pochi capiscono come viviamo, con la paura continua che Stefano possa farsi del male, con l’ansia di non poterlo lasciare mai solo, con la difficoltà di relazionarsi con lui. Lo capisce qualche amico caro, che ha continuato a fare le vacanze con noi nonostante le difficoltà, qualche familiare. Per il resto, niente. La sensazione più forte è quella di abbandono totale, da parte di tutti: comunità locale e governo. L’isolamento, ecco».

Scusi la brutalità, ma allora capisce chi arriva ad ammazzare il proprio figlio disabile?
«Non è il nostro caso, ma capiamo sì: è facile diventare depressi e finire per non vedere soluzioni o vie d’uscita. Noi siamo tutto sommato fortunati: non ci siamo ammalati e continuiamo a combattere. Ma se ci fosse successo qualcosa? Di Stefano chi si sarebbe ricordato? Nessuno».

Ora che sta facendo Stefano?
«È nella sua stanza- sorride finalmente Gian Luca- mette una sopra l’altra le sue due costruzioni, guai a mettergliene una terza che non andrebbe avanti. Ma poi so che ogni tanto si alza e viene a riempirmi di baci».

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