Intervista a Mati Diop, la regista di "Atlantique"

Nel 2019, Mati Diop è stata la prima regista nera a essere ammessa al concorso del Festival di Cannes. Con il suo film di debutto, Atlantique ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria, raccontando  la vita di coloro che sono morti nel tentativo di raggiungere l'Europa.
Mati Diop
Mati DiopBertrand NOEL/SIPA/Shutterstock

A Mati Diop sono bastate sette settimane per girare Atlantique ma – ci dice – è un film su cui ha lavorato una vita. «La migrazione fa parte di chi sono», ci spiega la regista 37enne. «Se mio padre non fosse venuto in Francia, ora non sarei qui di fronte a voi. E non avrei fatto questo film». Diop è cresciuta a Parigi, da madre francese e padre senegalese, e lo spirito da storyteller le scorre nelle vene. Suo zio è Djibril Diop Mambéty, il noto regista di Touki Bouki e Iene. In passato, Diop ha lavorato sia di fronte che dietro la cinepresa e il suo curriculum da attrice include 35 Rhums di Claire Denis e Hermia & Helena di Matías Piñeiro.

Atlantique, il suo film di debutto, tesse sapientemente una moltitudine di storie per dare vita ad una ghost story toccante e avvincente, ambientata a Dakar e girata, principalmente, in lingua Wolof. Al centro della vicenda vi è Ada, una giovane donna promessa in sposa ad un uomo benestante, Omar, sebbene il suo cuore appartenga ad un operaio edile di nome Souleiman. Quando Souleiman e gli altri operai, stanchi di essere sfruttati e sottopagati, si mettono in viaggio in barca in cerca di una vita migliore in Europa, scatta la tragedia e scompaiono. Ma solo fisicamente. Il loro spirito torna per chiedere giustizia e riunirsi ai propri cari. Il film è talmente un susseguirsi di accadimenti insoliti, da una combustione spontanea ad un caso di possessione soprannaturale, che il nostro racconto non può davvero fare da spoiler.

A maggio 2019, Diop è entrata nella storia diventando la prima regista black a presentare un film in concorso a Cannes per poi aggiudicarsi il Grand Prix della Giuria. Da allora, ha vinto il premio inaugurale Mary Pickford al Toronto Film Festival a settembre e il suo film è stato selezionato come candidato dal Senegal agli Oscar.

Da Atlantique, Mame Bineta Sane è AdaNetflix

Ecco come Diop ci racconta l’opera della sua vita.

**Cosa ti ha spinto a girare un film sul tema della migrazione? **

«Ho iniziato a immaginare il mio film 10 anni fa, prima di quella che la gente chiama ora "crisi migratoria". Personalmente, non credo ci sia una crisi migratoria, ma piuttosto una crisi morale e politica. Da figlia di un immigrato, la migrazione fa parte della mia storia e della mia identità e la vedo come una realtà complessa ed esistenziale piuttosto che come un soggetto».

«Quando ho fatto ritorno in Senegal nel 2009 per esplorare le mie radici africane e la mia cultura, ho scoperto che i giovani stavano fuggendo dal Paese in massa verso l’Europa, in barca, alla ricerca di un futuro migliore. La perdita di così tante giovani vite in mare mi ha scossa nel profondo ed ero nauseata da come i media mal interpretassero le loro storie. Quindi ho deciso di realizzare un cortometraggio in cui un giovane uomo racconta la sua personale vicenda di viaggio verso l’Europa. Poi ho deciso di trasformarlo in un lungometraggio per raggiungere un pubblico più ampio. Non vorrei che quelle vite fossero state perse invano; la migrazione tocca tutti».

Da AtlantiqueNetflix

**Come mai è stato importante introdurre un elemento soprannaturale nella storia? **

«L’idea era di scrivere una ghost story (storia di fantasmi) su una generazione che ha perso la vita in mare, sull’onnipresenza della loro assenza e sulle ragazze di un quartiere che sono rimaste a casa e sono perseguitate dagli spiriti di questi ragazzi andati dispersi. Volevo che il film offrisse un luogo in cui questi spiriti potessero trovare rifugio, per chiedere giustizia, per ricevere i soldi che gli spettavano e per fare l’amore con le loro amate un’ultima volta. È un tema molto nuovo, nato dal parlare delle persone in termini di "illegali" quando lasciano il paese in cui sono nate. È fondamentale che il cinema e la letteratura diano non solo visibilità a chi è oppresso, ma che lo rappresentino anche in maniera autentica».

**Dove esattamente è stato girato a Dakar il fim e come mai hai scelto questa location? **

«Ho scelto Thiaroye, una comunità di pescatori nella periferia, prima di tutto per motivi estetici ma anche per via della sua storia. Quando i soldati africani [che hanno combattuto per la Francia Libera] venivano portati qui dopo la seconda guerra mondiale, chiesero una paga uguale a quella dei soldati bianchi. Gli ufficiali francesi si rifiutarono e uccisero fino a 300 soldati africani quando questi si lamentavano o protestavano. Quella notte [il 30 novembre 1944] è nota con il nome di Massacro di Thiaroye ma è una vicenda di cui non si sa molto in quanto si è fatto il possibile per insabbiare l’accaduto».

Atlantique, Ibrahima Mbaye è MoustaphaNetflix

«I ragazzi di Thiaroye che oggi come oggi viaggiano verso l’Europa in barca sono i discendenti di quei soldati assassinati. È interessante ambientare una storia di vendetta su quello stesso suolo ma è più che altro un gesto; era sufficiente che conoscessi io il motivo per cui ho scelto di girare qui. Quella tra il Senegal e la Francia è una storia violenta, ma io e la mia generazione la stiamo superando per scriverne una nuova».

**Tra il XVI e il XIX secolo, l’isola di Gorée al largo di Dakar era utilizzata per alloggiare gli schiavi prima che venissero trasportati sull’altra sponda dell’Atlantico, nelle Americhe. Questo movimento forzato di persone era nei tuoi pensieri mentre giravi Atlantique? **

«Quando girai il cortometraggio nel 2009, è stata dura per me non percepire i parallelismi tra queste ondate di partenze. Era molto angosciante per me concepire che giovani uomini si imbarcassero e mettessero a repentaglio la propria vita per andare in Europa, specialmente quando si pensa che la tratta degli schiavi era l’opposto. Dakar mi è sembrata una sorta di città fantasma e l’Atlantico un luogo tormentato e stregato».

**Qual è stata la sfida più grande nel realizzare Atlantique? **

«Suppongo che scritturare le persone giuste e formarle come attori sia sempre la cosa più ardua, in quanto i personaggi rappresentano il cuore pulsante del film. Ho un approccio al casting di tipo documentaristico. Per trovare Souleiman, mi sono recata in un cantiere in quanto volevo che conoscesse questa realtà. Dior [la migliore amica di Ada] lavorava come barista quando l’ho conosciuta e la sua vita era piuttosto simile a quella del suo personaggio».

«Mi ci sono voluti sette mesi per trovare Ada. Stavo quasi per posticipare le riprese, quando, un giorno, vidi questa ragazza [Mame Bineta Sane] a Thiaroye, ed è stato meraviglioso perché è apparsa quando non la stavo cercando intenzionalmente. Il fatto che fino a quel momento non eravamo stati in grado di trovare l’attrice giusta mi ha reso ancora più determinata ad impegnarmi nel processo di casting, perché poi ho scelto il resto degli attori come se fossi lei: chi erano le mie amiche, e chi il mio amante?».

Atlantique, Nicole Sougou è DiorNetflix

**Come mai, secondo te, la musicista e artista senegalese Fatima Al Qadiri è stata la persona migliore per creare la colonna sonora? **

«Fatima è in assoluto una delle migliori musiciste e artiste della mia generazione e incarna la musica dei miei tempi. L’ho scelta perché volevo che la musica del film stregasse il pubblico come un djinn [una sorta di genio o folletto, citato nel Corano. NdT]; ma ha avuto anche la comprensione giusta del complesso scenario geopolitico del film. Il mio modo di raccontare storie si nutre di molti riferimenti diversi: il gotico e il romanticismo europeo ma anche la mia tradizione africana e musulmana, quindi penso che il film sia una strana combinazione estetica. Io e Fatima abbiamo una cultura ibrida molto simile».

Come ti sei sentita quando sei diventata la prima regista black in concorso a Cannes durante i suoi 72 anni di storia, per poi vincere il Grand Prix?

«Una delle prime cose che mi sono detta è stata "Sì, è vero, sono la prima donna black ad andare a Cannes. Non posso credere che siamo ancora a questo punto». Ma, dall’altro lato girare il mio primo film in Africa è stata una vera scelta per me, una presa di posizione. Sarebbe stato molto semplice per me optare un approccio colour-blind (senza pregiudizi razziali) e considerarmi una regista francese. Non sono una ragazza bianca. A posteriori, mi sembra molto riduttivo concentrarsi sul colore della mia pelle. Non ero solo la prima regista donna black a salire sui gradini di Cannes, ero la prima donna 36-enne in concorso con un film di debutto, girato a Dakar, in lingua Wolof. Questa è la verità».

Ti auguri che il successo di Atlantique incoraggi una rinascita del cinema senegalese a cui hanno fatto da precursori figure come tuo zio e Ousmane Sembène?

«Non penso ad Atlantique in termini di cinema senegalese ma semplicemente in termini di cinema. Djibril ha un lascito enorme e si avverte la mancanza di registi e cinema in tutta l’Africa dalla sua morte. Si sente un grande vuoto, e lo dico in maniera oggettiva, non solo perché sono sua nipote. Volevo girare Atlantique in Senegal in modo che il lascito e la tradizione non andassero persi; sarebbe una tragedia. È importante poter avere un occhio sull’Africa che sia realmente africano. I film non si limitano solo a raccontare storie, dovrebbero creare un impatto che incoraggi altri a produrre nuovi lavori».

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Atlantique è distribuito in Italia da Netflix.