America-Cina | la newsletter del Corriere della Sera
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Mercoledì 06 maggio
editorialistadi Marilisa Palumbo
Buongiorno,

ieri il grande virologo Anthony Fauci - la cui task force Donald Trump annuncia di voler presto smantellare - ha ribadito che il covid-19 non è stato costruito in laboratorio: ma non è questa l'(unica) base delle accuse dei governi e delle intelligence occidentali nei confronti della Cina. L'inchiesta internazionale che Ue e altri si preparano a chiedere riguarderà, se mai ci sarà, soprattutto gli errori e la mancanza di trasparenza iniziale di Pechino. Una pressione che spaventa la leadership cinese anche per le ricadute sul fronte interno, come testimonia un documento arrivato sul tavolo di Xi Jinping (e trapelato sulla stampa occidentale), che evoca persino Tienanmen.

Ma oggi oltre che parlarvi di amari bilanci, di tensioni razziali, di privacy e di domande impossibili sul valore della vita umana, vi raccontiamo anche una piccola grande storia di generosità che attraversa secoli e oceani, e vi lasciamo con l'«obituary» di un incredibile personaggio di sport, «larger than life», che ha battuto record su record eppure ripeteva: «Il fallimento non è una tragedia».

Buona lettura.


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1. Giorni contati per il dottor Fauci: Trump pensa già a smantellare la task force (mentre i decessi salgono)
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Il presidente Donald Trump, senza mascherina, ieri in un impianto che produce mascherine in Arizona
editorialista
di Giuseppe Sarcina
corrispondente da Washington

Il tempo della task force, di Anthony Fauci e di Deborah Birx sta per scadere. Ancora qualche settimana, forse un mese e il team di medici e scienziati sarà smantellato. Lo conferma Donald Trump alla sua prima uscita, dopo settimane di fermo a Washington. «Avremo qualcosa di diverso», ha detto il presidente ai reporter, mentre visitava un impianto che produce mascherine in Arizona. Per inciso non ne ha trovata neanche una che gli piacesse. Ha girato tra i macchinari protetto solo da un visore, nonostante i cartelli appesi ovunque: «Nei reparti è obbligatorio l’uso della mascherina».

Ormai sappiamo quanto Trump sia allergico ai vincoli troppo rigidi e anche ai richiami, alle previsioni degli scienziati. Negli ultimi giorni si è parlato e scritto spesso delle sofferenze di Fauci, il grande virologo alle prese con le fughe in avanti e con gli strafalcioni del presidente. Ma anche per Trump la convivenza forzata con i dottori non deve essere stata facile.

Adesso che l’America sta per ripartire, il leader della Casa Bianca rivuole mano libera: «Faremo qualcosa di diverso, anche se gli scienziati rimarranno come consiglieri». Vedremo. Il punto è che l’annuncio suona, inevitabilmente, come la fine dell’emergenza.

  • Il Paese se lo può permettere? Le previsioni del Cdc, l’autorità sanitaria federale, sono inquietanti. Il contagio potrebbe diffondersi con un aumento del 20% nei 32 Stati riaperti. L’epidemia sta leggermente rallentando a New York, ma cresce in altre città, come Chicago e Los Angeles. Si spinge nella profondità dell’America rurale. Oggi si contano già più di 70 mila morti. Da qui al 4 agosto, conclude il Cdc, potrebbero essercene altri 100 mila in più. Agli Stati Uniti farebbe ancora comodo la bussola di Fauci.

2. Il presidente Usa ammette che riaprire costerà nuove vittime e torna la domanda: quanto vale una vita umana?
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Una infermiera piange uno dei suoi colleghi morti a causa del coronavirus in una manifestazione davanti al Mount Sinai Hospital di Manhattan
editorialista
di Massimo Gaggi
da New York

Quanto vale una vita umana? Alcuni anni fa (era Obama) gli esperti dell’Omb, l’ufficio di Bilancio della Casa Bianca, avevano messo nero su bianco un calcolo teorico. Basandosi su vari fattori di rischio — dal fumo alla guida di veicoli, fino ai lavori usuranti o pericolosi e, addirittura, alle insidie della carne poco cotta — avevano stimato che in America una vita vale, in media, dai 7 ai 9 milioni di dollari.

Il tema è tornato d’attualità col coronavirus, ma dopo le reazioni indignate suscitate dalle prime sortite di Boris Johnson che voleva traghettare la Gran Bretagna verso l’immunità di gregge senza alcun lockdown anche a costo di pagare un alto prezzo di vite spezzate, tutti, compresi i fan di un’America aperta a tutti i costi, hanno evitato l’argomento. Tanto più che, nel frattempo, anche Johnson aveva fatto dietrofront già prima di ammalarsi e finire in rianimazione.

Ma adesso che 31 Stati (soprattutto, ma non solo, a guida repubblicana) si accingono a riaprire i battenti da lunedì prossimo, la questione è di nuovo sul tavolo. C’è chi lo chiama prezzo della vita, chi preferisce usare l’espressione trade off, il rapporto tra la sofferenza per la perdita di una vita e quella per la devastazione dell’economia. «Nessun politico ne vuole parlare, ma è di questo che stiamo discutendo», ammonisce Andrew Cuomo, governatore di uno Stato, New York, che si sta muovendo con più cautela di altri, anche perché investito in pieno dalla tempesta del Covid-19.

Ha ragione a sostenere che questo è, ormai, il tema, ma il tabù sta cadendo. Fino a qualche giorno fa c’era solo il vicegovernatore del Texas, Dan Patrick, a dichiararsi pronto, da settantenne assai esposto, a rischiare la vita pur di lasciare a figli e nipoti un’America economicamente forte e prospera. Ma adesso sono parecchi gli esponenti conservatori a dirsi pronti a pagare un prezzo più elevato in termini di vite umane: dall’ex governatore del New Jersey, Chris Christie («Voglio tutelare la vita, ma è inevitabile pagare un prezzo per salvare il nostro stile di vita»), a Rudy Giuliani, che fu sindaco di New York, il messaggio è quello di riaprire anche accettando di avere molti più decessi.

Difficile negare che si morirà di più, visto che già ora le vittime, salvo New York, Seattle e la Louisiana dove sono state adottate le misure cautelative più severe, sono in aumento quasi ovunque. Ma i nuovi modelli che escono di continuo con previsioni di perdite di vite umane raddoppiate in caso di frettolosa riapertura di un’America che non ha ancora un sistema di monitoraggio efficace, spingono anche Donald Trump a uscire allo scoperto: oltre a smantellare la task force anti Covid, adesso sostiene che i modelli hanno un valore relativo. Ammette che riaprire costerà vite umane, ma aggiunge che anche tenere il Paese chiuso provoca vittime, sia pure di altro tipo: suicidi, violenze domestiche, droga.

P.S. (Andrea Marinelli) Rispetto al suo vice Dan Patrick, il governatore del Texas Greg Abbott è sempre stato più cauto, ma ora una sua telefonata privata con i parlamentari statali, di cui il Daily Beast ha ottenuto una registrazione, sta facendo discutere. «Ogni rapporto medico e scientifico mostra che la riapertura dello Stato farà automaticamente aumentare i contagi», ha spiegato Abbott, che pubblicamente aveva invece sostenuto che un eventuale incremento sarebbe stato riconducibile soprattutto all’aumento dei test. Nonostante la consapevolezza dei rischi, però, ha annunciato la fine del lockdown.

3. Il dossier che avverte Xi: si rischia una nuova Tienanmen, ispirata dall’America
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editorialista
di Guido Santevecchi

Sul tavolo di Xi Jinping è arrivato un rapporto che lo avverte del rischio di una nuova Tienanmen. Nel senso che i sentimenti anti-cinesi si sono rafforzati nel mondo (e nei governi del mondo), spinti dalla crisi coronavirus e dai sospetti di copertura e omissioni sull’inizio dell’epidemia a Wuhan, poi diventata pandemia.

Il dossier è stato preparato da un think tank del ministero per la sicurezza statale di Pechino. Gli analisti scrivono di rischio Tienanmen per ricordare l’isolamento internazionale e le sanzioni economiche subite dalla Cina dopo la strage del 1989.

  • Il documento è stato fatto filtrare da Zhongnanhai, il quartier generale del Partito-Stato ed è arrivato all’ufficio della Reuters (che ha dimostrato di avere ottimi contatti e negli ultimi mesi ha ricevuto diverse fughe di notizie). È chiaro che Xi è ben consapevole del rischio di una campagna anti-cinese, guidata dagli Stati Uniti. Ogni giorno, da settimane, Donald Trump e Mike Pompeo bombardano di accuse sul «Virus di Wuhan» e il «Virus cinese», giurando di avere prove sulle colpe del partito comunista.
  • Nel documento passato alla Reuters c’è un capitolo che è un messaggio: la crescente ostilità nei confronti della Cina può portare a uno scontro armato tra le due superpotenze.
  • «Non ho informazioni in materia», ha detto il portavoce del Ministero degli Esteri cinese nel briefing quotidiano per la stampa, quando la Reuters ha chiesto un commento sul suo scoop. Nessuna smentita dunque. Quasi a confermare che il rapporto segreto sia stato passato alla stampa occidentale proprio per far arrivare il messaggio forte e chiaro: Pechino vede il rischio che dopo la guerra contro il virus si debba combattere un conflitto armato.
  • Ma Pechino guarda anche alla ricaduta interna dell’epidemia. Il virus, con i lutti in migliaia di famiglie, milioni di posti di lavoro persi, potrebbe aver attaccato anche la «weiwen»: la stabilità sociale (e quindi politica).
  • Per questo, secondo un altro documento, a fine aprile sarebbe stato costituito un Gruppo ristretto dedicato alla sorveglianza e ricostruzione della «ping’an» la sicurezza pacifica. Tra i compiti della task force evitare scoppi di violenza post-virali.
  • Un clima da «maschere e pugnali», alimentato anche da un discorso di Matthew Pottinger, vice consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca. Ha preso spunto dal 4 maggio, che in Cina ricorda il giorno del 1919 in cui gli studenti marciarono per la prima volta su Piazza Tienanmen, per protestare contro il Trattato di pace di Versailles, che a conclusione della Prima guerra mondiale non restituì alla Cina zone occupate dal Giappone. Quel Movimento 4 Maggio, è considerato il precursore dello spirito comunista. Ma è anche trattato con cautela, da quando ci fu l’altra Tienanmen, quella del 1989. Pottinger, che parla un fluente mandarino, in un discorso accademico ha invitato i cinesi a riscoprire lo spirito del 4 maggio, rifiutare le false ideologie e seguire i veri eroi come il dottor Li Wenliang, che cercò di dare l’allarme sul virus di Wuhan e fu messo a tacere.
  • Quasi un invito al regime change che va proprio nella direzione del documento riservato passato alla Reuters, curiosamente proprio il 4 maggio. L’alto funzionario trumpista è stato giornalista della Reuters e del Wall Street Journal in Cina; nel 2005 si è improvvisamente arruolato nei Marines ed è stato inviato come ufficiale dell’intelligence in Iraq e Afghanistan. Nel 2017 è entrato nel National Security Council, con responsabilità per l’Asia.

4. Non solo Washington: le grandi manovre per un’inchiesta internazionale sulle origini della pandemia
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editorialista
di Guido Olimpio

Grandi manovre per promuovere un’inchiesta internazionale indipendente sulle origini del virus. Una spinta da più direzioni. Ciò non significa sposare le accuse mosse da Donald Trump sull’origine dolosa o accidentale dell’epidemia. Pretendere trasparenza da parte della Cina è il minimo, visto che stiamo pagando tutti le conseguenze.

  • L’Ue ha preparato una bozza di risoluzione che intende presentare alla prossima assemblea dell’Oms in programma il 18 maggio. Gli europei precisano di non voler partecipare allo scontro Cina-Usa, bensì vogliono comprendere cosa sia accaduto.
  • Washington, peraltro, sta esercitando pressioni affinché i partner sostengano l’idea dell’indagine.
  • L’Australia è sulla stessa linea e intende promuovere un’iniziativa nell’ambito G20, istituzione della quale fa parte anche Pechino. Ma c’è un problema, l’oste non è d’accordo. I cinesi, fino ad oggi, si sono opposti. Forse permetteranno visite di ispettori quando pandemia sarà terminata, ha detto oggi una fonte diplomatica.

La foto del giorno
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Rientro a scuola con i termoscanner a Wuhan, «ground zero» della pandemia

(Guido Santevecchi) «Per la prima volta sono davvero felice di andare a scuola». Il commento non banale è di un ragazzino di Wuhan che oggi è tornato in classe dopo la quarantena imposta dal 23 gennaio. Un altro passo verso il lento ritorno alla normalità per la città ground zero dell’epidemia. Ma oggi sono rientrati in aula solo i liceali che debbono finire la preparazione per il Gaokao, l’esame di Stati che dà la possibilità di andare all’università. Scanner della temperatura e maschera obbligatoria.

5. Sensori, tracciamento, dati sanitari: dove finisce la privacy nei posti di lavoro ai tempi del virus?
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(di Massimo Gaggi) Telecamere termiche che misurano la temperatura quando si entra in ufficio, applicazioni che consentono di controllare se il dipendente rispetta le norme di distanziamento sociale, ma anche di vedere quanto, dove e con chi si sposta in azienda.

E l’ipotesi di dividere la forza-lavoro in gruppi diversi non secondo le mansioni ma in base all’età e alle condizioni di salute fisica. Con la ripresa dell’attività e la riapertura delle imprese, molti americani scopriranno che la loro azienda non è sopravvissuta a due mesi di blocco dell’economia o è finita in rianimazione, bisognosa di salvataggio. Altri troveranno uffici e fabbriche diversi, con l’installazione — programmata o già realizzata — di dispositivi di sorveglianza sempre più sofisticati. Non è una novità, certo: c’era una volta l’opposizione sindacale all’uso dell’elettronica anche solo per archiviare le pratiche di un ufficio o gli articoli di un giornale. Erano considerati sistemi utilizzabili per misurare la produttività dei singoli dipendenti.

La resistenza all’installazione dei tornelli per controllare entrata e uscita da un luogo di lavoro è caduta con le accresciute esigenze di sicurezza e la minaccia del terrorismo. Negli Usa, dopo gli attacchi di Al Qaeda del 2001, è diventato normale anche passare ai raggi x quello che si porta in ufficio, come si fa quando ci si imbarca in aereo. Il giro di vite di quasi vent’anni fa, giustificato con esigenze di sicurezza, portò anche all’introduzione di controlli di altra natura: ad esempio l’installazione di sensori in grado di misurare quanto tempo si bassa seduti alla scrivania e quanto in bagno.

Ora è tempo di un altro giro di vite giustificato da esigenze ancora più pressanti: la tutela della salute dei dipendenti. Ma quando l’emergenza sarà superata grazie al vaccino, avvertono gli esperti di sicurezza, il datore di lavoro non avrà alcun interesse a smantellare questi nuovi, penetranti, sistemi di controllo.

La paura del virus gli sta consentendo di entrare in aree fino a ieri considerate inviolabili. Discriminare un dipendente per età era considerato grave quanto discriminare per sesso o per razza. Ora separare il personale anziano, ma anche i fumatori, chi soffre di patologie croniche o le donne incinta, diventa un atto di riguardo.

6. Irlandesi e indiani Choctaw: uno scambio di solidarietà a due secoli e un oceano di distanza
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Kindred Spirits, la scultura che a Midleton, contea di Cork, ricorda la solidarietà degli indiani Choctaw nei confronti degli irlandesi durante la carestia di metà Ottocento
editorialista
di Michele Farina

Una storia di solidarietà che oltrepassa i secoli e gli oceani, dalle patate al coronavirus: più di 170 anni fa gli «indiani» della Nazione Choctaw negli Stati Uniti donarono 170 dollari (sarebbero 5.000 oggi) agli irlandesi che stavano morendo di fame e di stenti nella cosiddetta Potato Famine o The Great Hunger (in irlandese An Gorta Mór), la carestia che tra il 1845 e il 1849 uccise un milione di persone e costrinse un altro milione a emigrare dall’Isola Verde. La causa scatenante era una «malattia» della patata (principale fonte di sussistenza) che aveva distrutto i raccolti.

Ora centinaia di irlandesi (racconta il New York Times) ricambiano quel gesto, donando soldi (quasi due milioni di dollari) per aiutare i nativi americani particolarmente colpiti dalla pandemia. A innescare la risposta degli irlandesi è stata tra gli altri Naomi O’Leary dell’Irish Times, che ha ricordato su Twitter l’antica generosità dei Native American (giunta a buon fine grazie alla mediazione dei Quaccheri).

A Midleton, contea di Cork, c’è un monumento che rende omaggio alle Anime Gemelle Choctaw che, come altre nazioni indiane, a metà Ottocento erano reduci dalla deportazione (il Sentiero delle Lacrime) in cui avevano pianto migliaia di vittime. Eppure, in quelli che oggi chiameremmo campi profughi in Oklahoma, venendo a sapere della carestia in Irlanda ritennero giusto mandare un piccolo grande aiuto.

Dono ricambiato: il denaro raccolto in Irlanda va a un fondo di sostegno alla Nazione Navajo, una delle comunità più colpite d’America, con 2.700 casi e almeno 70 morti (specie in Arizona). Gary Batton, chief della Nazione Choctaw in Oklahoma, dice al Times che la tribù «è molto gratificata, e forse non del tutto sorpresa» dalla mobilitazione dei «nostri special friends». Durante la Prima Guerra Mondiale, i Choctaw vennero arruolati nell’esercito americano come «parlatori in codice», perché non esistevano dizionari tedesco-choctaw. Per l’irlandese, il dizionario comune esiste da oltre 170 anni: il codice della solidarietà supera le lingue e gli oceani.

7. Maud, ucciso da due poliziotti mentre correva: è servito un video a fare giustizia
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Ahmaud Arbery e Gregory e Travis McMichael
editorialista
di Andrea Marinelli

C’è voluto un video pubblicato online per portare davanti al Grand Jury gli assassini di Ahmaud Arbery, un 25enne della Georgia ucciso a fine febbraio mentre correva per le strade del suo quartiere in tenuta sportiva: per quasi tre mesi la giustizia ha temporeggiato, perché a premere il grilletto erano stati l’ex poliziotto Gregory McMichael – che aveva lavorato a lungo con il pubblico ministero incaricato del caso – e il figlio Travis.

I due uomini, di 64 e 34 anni, hanno sempre sostenuto di essere convinti che il ragazzo afroamericano fosse un ladro che si aggirava fra le case, di avergli intimato di fermarsi e che Arbery, alla vista delle pistole, li avesse aggrediti.

Li ha smentiti il video girato da un anonimo testimone e pubblicato ieri, che ha mostrato i due uomini mentre inseguivano il ragazzo con un pickup, per poi sparargli due volte. Il video dell’omicidio è diventato virale e ha dato vigore alle proteste degli attivisti, degli amici e dei familiari di Arbery, che per quasi tre mesi hanno chiesto l’arresto dei responsabili: ieri un centinaio di persone ha marciato verso la casa dei McMichael pretendendo giustizia.

«Corro con Maud», sosteneva un cartello. «Niente giustizia, niente pace», si leggeva in un altro. Eppure, come hanno spiegato a una televisione locale due amici di Arbery, «non è una questione di razza, di essere bianchi o neri, ma di ciò che è giusto o sbagliato». Come ha chiarito l’avvocato Lee Merritt, chiedendo l’immediata incarcerazione dei due uomini, «il signor Arbery non aveva commesso alcun crimine, e non c’era motivo per cui i due uomini gli intimassero di fermarsi con un arma: questo è un omicidio. Gli eventi mostrati nel video — prosegue — confermano tutte le prove: lo hanno preso di mira soltanto per la sua razza, e lo hanno ucciso senza giustificazione». Il video ha ovviamente accelerato il corso della giustizia: il governatore Brian Kemp ha affermato che «i georgiani meritano una risposta», mentre il procuratore distrettuale Tom Durden ha inviato il caso al Grand Jury, che dovrà poi decidere se mandare i due uomini a processo.

8. A grande richiesta: Barack e Michelle per la «classe del 2020»
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(Andrea Marinelli) Con la chiusura delle scuole, se ne è andato anche il tradizionale rito di passaggio degli studenti americani: la cerimonia di consegna di diplomi e lauree con il relativo commencement address, un discorso affidato a un personaggio pubblico come quello, virale, di Steve Jobs (in quel caso agli universitari) a Stanford nel 2005.

Il coronavirus ha cancellato le cerimonie, ma ad attutire la perdita ci penseranno – almeno virtualmente – gli Obama, che parteciperanno a tre eventi. «Anche se quest’anno non possiamo farlo di persona, Michelle ed io siamo felici di celebrare la Classe del 2020», ha affermato l’ex presidente annunciando il programma:

  • il 16 maggio pronuncerà un discorso per studenti dei college afroamericani;
  • lo stesso giorno parteciperà insieme a Megan Rapinoe, Pharrell Williams, Malala Yousafzai e ai Jonas Brothers all’evento organizzato dalla fondazione di LeBron James per gli studenti di liceo, «Graduate Together: High School Class of 2020 Commencement», che verrà trasmesso in televisione in prima serata;
  • il 6 giugno, infine, interverrà insieme a Michelle nell’evento di YouTube, «Dear Class of 2020», a cui prenderanno parte anche Lady Gaga, l’ex segretario di Stato Condoleezza Rice, l’ad di Alphabet Sundar Pichai, Alicia Keys e Kelly Rowland.
  • Il coinvolgimento degli Obama, secondo il New York Times, sarebbe dovuto alla campagna social lanciata da un liceale californiano, che ad aprile aveva chiesto via Twitter all’ex presidente di tenere un discorso di laurea nazionale per «confortare con la sua voce» gli studenti: in tre settimane il ragazzo ha ricevuto 46 mila retweet e 226 mila like, ma soprattutto l’impegno della first family.
  • Il mese degli Obama, però, in realtà comincia oggi: su Netflix esce in tutto il mondo Becoming, il documentario sull’ex first lady che tutti i dem ora vorrebbero al fianco di Biden come vice presidente

OBITUARY: Don Shula, un coach da leggenda
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editorialista
di Domenico Calcagno

Il più grande? Può darsi, ma su questo si potrebbe discutere per anni senza arrivare a una conclusione. Meglio andare sul concreto, sui numeri che nello sport sono definitivi e raccontano che Donald Francis Shula, morto lunedì a 90 anni nella sua casa di Indian Creek, in Florida, se ne è andato lasciando una serie di record scolpiti nel libro della Nfl, uno dei quali non potrà mai essere battuto, al massimo pareggiato.

Nato a Grand River, nell’Ohio, figlio di americani arrivati dall’Ungheria, Don Shula attraversa per sei anni i campi del football professionistico senza farsi notare troppo. Un cornerback più modesto che onesto. Ma appena esce dal campo per schierarsi sulla linea laterale, tutto cambia e l’anonimo giocatore si trasforma in allenatore sopra la media, un coach che ha visione, intuizione e, soprattutto, sa vincere le partite.

Nel 1963, a 33 anni, diventa capo allenatore dai Baltimore Colts, il più giovane head coah di sempre (record tuttora imbattuto). Nel Maryland trova Johnny Unitas, quarterback, una leggenda americana, e con lui arriva a giocarsi il Superbowl numero tre, il 12 gennaio 1969 a Miami, che diventerà la sua città. Perde perché va a sbattere contro un altro quarterback che la sua leggenda aveva appena iniziato a costruirla, Joe Namath, soprannome Broadway, regista dei Jets di New York. Namath è un tipo che va di fretta («Non vedo l’ora che arrivi domani» il titolo della sua autobiografia), porta incredibili pellicce, colleziona bionde straordinarie e non ha paura di niente. Il giorno prima della partita dichiara: «Vinciamo noi, sicuro». Tutti lo prendono per matto, ma la partita finisce 16-7 per i Jets che, secondo gli esperti, non avevano mezza possibilità. Nella mitologia dello sport Usa, quella vittoria viene considerata la più sorprendente dopo il primo trionfo agli inizi del 900 del purosangue Upset, il cui nome diventò un verbo, to upset: offendere, sconvolgere, scombussolare, ma anche vincere contro il pronostico.

Don saluta il Maryland e scende a sud, in Florida, senza sapere che non lascerà Miami e i Dolphins fino al giorno del pensionamento. Resiste alla guida della squadra che prima del suo arrivo non aveva mai giocato una sfida di playoff per 25 anni, allena tre diverse generazioni di giocatori, vince due volte il Superbowl e un numero spaventoso di partite: 347 (altro record tuttora imbattuto). Le sconfitte sono solo 173, i pareggi 6.

Il capolavoro lo compie nel 1972, la stagione perfetta, 14 vittorie (su 14) in stagione regolare, 3 (su 3) nei playoff, compreso il Superbowl vinto il 14 gennaio 1973 a Los Angeles contro i Washington Redskins. È il record, questo, che nessuno potrà mai togliergli. I Dolphins della perfect season sono un meccanismo letale, sanno controllare gioco, spazi e tempo con una sicurezza mai vista prima. Bob Griese è il quarterback, freddo come un killer; Larry Csonka, di origini ungheresi come Shula, e Mercury Morris sono i portatori di palla, i primi compagni di squadra a correre entrambi per più di mille yards nella stessa stagione; Nick Buoniconti è il leader della «no name defense», la difesa senza nome solo perché i riflettori erano tutti e sempre sui giocatori d’attacco.

Chiusa l’età dell’oro con i due Superbowl in cassaforte, Shula costruisce altre squadre vincenti. Non alza più il Vince Lombardi Trophy ma gioca altre due volte la finale, nell’83 e nell’85. Perde la prima contro i Redskins e la seconda contro i San Francisco 49ers di Joe Montana che a Stanford riesce a fare meglio di Dan Marino, il quarterback di Shula protagonista di una stagione irripetibile. Rifiuta una contratto da cinque milioni di dollari (ne guadagnava 400 mila) che gli offre Donald Trump per allenare i suoi New Jersey Generals e nel 1995 si ritira per finire, due anni dopo, nella Hall of Fame del football. Il suo discorso a Canton, nel giorno dell’ingresso nel «museo» degli immortali che hanno fatto la storia del gioco, inizia così: «L’unica cosa che non voglio sentire di me è di non aver lavorato. Il successo non dura per sempre e il fallimento non può essere una tragedia».

Da tenere d’occhio

  • Forza Ruth: Ruth Bader Ginsburg è stata ricoverata ieri all’ospedale Johns Hopkins di Baltimora, in Maryland, per un problema alla colecisti: un calcolo le ha causato un’infezione e sarà sottoposta a un trattamento «non chirurgico». Il giudice della Corte Suprema, 87 anni e sopravvissuta a quattro tumori, resterà per un paio di giorni in ospedale, da dove continuerà a seguire le udienze: il coronavirus ha obbligato infatti il massimo tribunale americano a lavorare in teleconferenza per la prima volta, e stamattina i 9 giudici hanno in programma due casi.

Grazie per l’attenzione con la quale leggete le nostre storie. E scusate il gran ritardo (problemi tecnici)!
Buona giornata. A domani,

Marilisa Palumbo

America-Cina esce dal lunedì al venerdì alle ore 13.
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