16 febbraio 2020 - 00:08

Zaki non torna libero: «Situazione brutta. Siamo 35 in una cella. Mi tenete la mano?»

Udienza negativa. Per l’Italia un sorriso: forza Bologna

di Francesco Battistini, inviato a Mansura

Zaki non torna libero: «Situazione brutta. Siamo 35 in una cella. Mi tenete la mano?» Un fumetto che ritrae Zaky avvolto dal filo spinato su sfondo rosso e le scritte “Patrick libero”
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«La mano, datemi la mano». Come stai, Patrick? «Tutto bene…». Nella stanzetta delle udienze riservate, aula 4 del terzo piano del palazzaccio di Mansura, il pericoloso libero pensatore viene portato in manette alle dieci e mezza. Sfila nella luce dei neon bianchi e lungo i banconi della corte, in una folla d’avvocaticchi di provincia, di graduati con la pancia e i baffoni, di venditori di caffè. Il caso 1.372 di Patrick George Michel Zaki Suleimani è stato inserito nel calendario del sabato mattina: subito dopo la denuncia d’un furto di mobili, la querela d’una moglie contro il marito troppo violento, una lite fra i soci d’una finanziaria. Già buono che l’abbiano accettato in una settimana, dice un diplomatico, di solito le istanze di scarcerazione slittano molto più in là…

Fa freddo, fuori c’è la nebbia e dentro s’annuvola il fumo delle sigarette. Sotto una sura dorata del Corano che esalta il Regno della Giustizia, Zaki guarda i suoi carcerieri. Ha di fronte i tre giudici e una sentenza che deciderà se rilasciarlo. Gli occhi addosso, sa come si deve rispondere in questi casi: tutto bene, sì, cibo ottimo e abbondante...

Ma poi, ma poi. Appena la tensione si scioglie, il ragazzo ha l’ansia di chi sarà anche sbarbato e avrà i capelli tagliati di fresco e una camicia verdolina ben stirata e porterà pure jeans di marca e scarpe da ginnastica senza stringhe, sembrerà magari uno normale, eppure qui c’è poco di normale. Zaki ostenta calma, non ha segni visibili di botte e sta meglio che all’ultimo colloquio di giovedì, nella calca gli finiamo a fianco e stavolta trema: gli prendiamo la mano sinistra lasciata libera dalle manette e mentre parlano gli avvocati, lui stringe e ascolta le domande che gli sussurriamo. Ti trattano bene? «Very bad situation». Tanto brutta? «Sono in una cella con 35 persone, abbiamo una latrina soltanto, la finestra è piccolissima». Sai che hai intorno tanta solidarietà? «Sì, bene, grazie, bene così». Dai, fai un sorriso, prima o poi tornerai a vedere le tue partite di pallone: che cosa diciamo all’Italia? «Forza Bologna».

La paura ha gli occhi persi d’un ricercatore universitario di 27 anni, elettrificato come altre migliaia di poveracci per avere scritto che il potere è marcio. Smarrito fin qui in una storia «più grande di lui», come dice il suo amico Gasser Abdel Razek, e in una vicenda che nell’equiparazione a Regeni sta scappando di mano anche agli egiziani. Difensori, diplomatici, giornalisti, pacifisti: la piccola scia del pubblico è una confusione di ruoli, l’udienza era a porte chiuse ma fa nulla, e i poliziotti si confondono pure loro, non sanno chi può e chi no, in una quindicina c’infiliamo dietro Patrick in quel bugigattolo e a sentire quel che ne sarà. Dieci minuti soltanto d’udienza, mezz’ora appena di consiglio e a mezzogiorno il destino si compie: sabato prossimo si discuteranno le accuse di sovversione dello Stato, per cinque settimane non si parlerà più di scarcerazione e ora basta — toc! — la seduta è tolta. La giustizia di Al Sisi se ne infischia che la cristianissima famiglia di Zaki sia lontana parente del papa copto Tawadros II, delle autorevoli telefonate partite in queste ore dall’Europa per evitare l’ennesimo scontro, dei quattro diplomatici Ue (italiano e svedese) ed extra Ue (statunitense e canadese) venuti a «monitorare» questa palese violazione della libertà d’opinione, dei quattro amici d’infanzia saliti dal Cairo, dei quattro avvocati ingaggiati dall’ong Eipr che si batte per i troppi diritti calpestati delle persone.

L’avvocatessa Huda Nasrallah s’accalora fino a irritare i giudici: «L’accusate sulla base d’un profilo Facebook falso! L’avete torturato sei ore in aeroporto! L’avete trattenuto 30 ore illegalmente! L’avete interrogato senza difensore! Gli imputate cose accadute in Egitto mentre lui era in Italia!». Anche Patrick prova a dire la sua, ma a bassa voce: «Io sono solo un ragazzo che era atterrato al Cairo per venire a Mansura a salutare la famiglia. Sono solo un laureato che vuole finire il suo master a Bologna. Voglio solo tornare alla mia borsa di studio. Mi hanno messo in carcere perché hanno letto dei post sull’account d’un nome che non era il mio. Mi hanno denudato per ore in una sala, mi hanno preso a schiaffi in faccia. Lasciatemi libero».

Niente. La sentenza di rigetto non ha bisogno di motivazioni, e infatti i giudici non ne danno agli avvocati che le chiedono. Al caffè Oscar, poco fuori, ci s’abbraccia e un po’ ci si dispera: quando lo rivedremo? E se si facesse venire gente dall’Europa per organizzare un flash-mob al Cairo? «Follie, finirebbe malissimo — dicono all’Eipr — nell’Egitto di oggi è troppo pericoloso fare queste cose». Qualcuno ha scattato una foto a Zaki: come l’hanno portato in aula, così se lo sono ripresi in prigione. Trascinato giù per le scale, la testa schiacciata da un secondino, le manette strette dietro il buio d’una gabbia.

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