14 febbraio 2020 - 00:24

Come scrivere le lettere d’amore: che sono confessioni, non condivisioni

Per chi le invia e chi le riceve sono il luogo di un incantesimo perché, come scriveva Adorno, «dove siamo amati possiamo mostrarci deboli». Oggi si preferiscono mezzi più veloci: WhatsApp o Instagram; consegna garantita, ma si perde il coraggio dell’azzardo

di Ilaria Gaspari

Come scrivere le lettere d'amore: che sono confessioni, non condivisioni
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«Love letters», installazione di H.A. Schult realizzata nel 2001 a Berlino in Oraninenburger Strasse (foto Thomas Hoepker/Magnum Photos/Contrasto)

Pensateci: quand’è stata l’ultima volta che avete scritto una lettera d’amore, o l’avete ricevuta? Qualcuno magari ne tiene una ripiegata in quattro nel portafogli, qualcun altro forse ha appena imbucato la sua, dopo aver messo in bella calligrafia sulla busta il codice postale, che l’ha resa una lettera a tutti gli effetti; ma, ci scommetterei, si tratta di casi rari. Qualche settimana fa ho fatto la stessa domanda durante un laboratorio di scrittura: un fitto gruppo di liceali mi ha risposto che la loro ultima lettera, fino a quel giorno, era stata per Babbo Natale. A diciassette anni, nessuno di loro aveva scritto mai una lettera d’amore, e neppure l’aveva ricevuta. Le lettere d’amore non le scriviamo più perché sono lente, mi direte voi; una perdita di tempo, un affare antidiluviano. Bisogna pure comprare il francobollo, affrancarle, spedirle; oppure ingegnarsi a trovare un sistema per consegnarle a mano. Ci sono modi molto più rapidi, e più infallibili, per comunicare qualsiasi cosa. Mandi un messaggio su WhatsApp, o su Messenger, o anche su Instagram, o dove ti pare, e sai subito se è stato consegnato: a meno che il destinatario abbia il telefono spento o sia in qualche posto completamente isolato, è questione di un attimo. Riesci anche a vedere se è stato letto — a meno che, per astuzia preventiva, la privacy sia impostata per nascondere l’informazione; ma tant’è, son casi sporadici.

La possibilità di spiare la reazione

Se abbiamo da dire qualcosa a qualcuno — per esempio che ci siamo innamorati — in genere abbiamo anche la possibilità di spiarne immediatamente la reazione. E certo continuiamo a dichiararci, pure su WhatsApp o via mail; ma lo facciamo con lo spirito di chi sa che sarà letto, e che un silenzio prolungato sotto una spunta blu equivale quasi infallibilmente a un rifiuto. Ci sveliamo comunque, ma l’azzardo è breve, si dissolve nel giro di qualche istante, qualche ora a dir tanto. Così, non confessiamo sentimenti: li condividiamo, e intanto coltiviamo la possibilità di una gioia immediata che non si nutre di attesa, e rende ogni risposta mancata una sconfitta, sottraendola alla girandola delle congetture autoconsolatorie.

POSSONO ESSERE VERE OPERE D’ARTE, CAPACI
DI PARLARE A MOLTI ANCHE SE IN ORIGINE DESTINATE
A UN BEN PRECISO PAIO DI OCCHI

Un messaggio o un’email non finisce quasi mai perso, alla deriva come una bottiglia nel mare: premuto l’invio è subito sotto gli occhi di chi scrive e di chi riceve. Se ci esponiamo dobbiamo mettere in conto questa simultaneità, e il fatto che solo la pressione su un tasto ci separa dall’urgenza di chiudere gli occhi e sperare fortissimo nella risposta che desideriamo - il che ha i suoi indubbi vantaggi, ma ci nega il conforto della dilazione. Invece, nella lettera d’amore - che per essere davvero riuscita deve sottostare a un’unica regola aurea: quella di essere un omaggio e mai un ricatto per chi la leggerà - si dilata la solitudine dell’amante che scrive in uno spazio protetto, al riparo dagli occhi dell’amato. In quello spazio soltanto è possibile una confessione che non esige risposta. Senza risposta, per dire, è rimasta una fra le più belle lettere d’amore di tutti i tempi, il De profundis che Oscar Wilde scrisse dagli abissi del carcere in cui languiva in seguito a una sgrammaticata denuncia per somdomia (sic), tiro mancino del padre del suo amante (nonché destinatario della lettera), Lord Alfred Douglas, detto “Bosie”. Bosie, contro ogni evidenza, si ostinò anzi a dichiarare di non aver mai ricevuto la lunghissima lettera; la quale però, dopo ingarbugliate vicende editoriali che vollero espunti i riferimenti al capriccioso destinatario, fu infine pubblicata in versione integrale, molti anni dopo la morte del suo autore. E per fortuna, perché le lettere d’amore possono essere, come in questo caso, vere opere d’arte, capaci di parlare a molti anche se in origine destinate a un ben preciso paio d’occhi.

DA ELOISA E ABELARDO A OSCAR WILDE, SONO IL
MEDIUM DI UN’EVOCAZIONE RECIPROCA, CHE
CONSENTE AGLI AMANTI DI RITROVARSI E RICONOSCERSI,
ANCHE AL DI FUORI DEL TEMPO E DELLO SPAZIO

Lo scambio epistolare tra Jules e Jim

«Mentre la risoluzione d’essere un uomo migliore è un atto sperimentale ed ipocrita, essere divenuto, invece, più profondamente uomo è il privilegio di coloro che hanno sofferto; ed io credo d’esserlo divenuto», leggiamo nel De profundis: e se pure Bosie fu tanto duro da non ritenere che fosse il caso di rispondere, a noi oggi rimane la lucida testimonianza inestimabile di una passione distruttiva, di un immenso dolore inascoltato. Quando in un film compare una lettera, otto volte su dieci si tratta di una lettera d’amore - l’amore, d’altra parte, è il motore di molte trame, e non da ieri. In qualche caso a leggerla è la voce del suo autore, in qualche altro quella del destinatario, ma non si tratta di un’ambivalenza casuale: una lettera d’amore è, in un certo senso, opera di entrambi. In Jules et Jim c’è una sequenza di tre minuti dedicata tutta a uno scambio epistolare. I tre amanti si scambiano nove lettere, e noi infatti li vediamo leggere e scrivere: ma la lettera più importante, la quinta, quella in cui Catherine riesce a convincere Jim del suo amore, è diversa dalle altre. Non ce la racconta nessuna immagine di lettura né di scrittura, solo il viso di Jeanne Moreau che in primo piano la recita mentre in sovrimpressione scorrono boschi e prati — le immagini della distanza che le lettere devono percorrere. Perché la lettera è, per chi la scrive e per chi la riceve, il luogo di un incantesimo profondamente connaturato all’essenza dell’amore, grazie al quale gli innamorati possono trovarsi insieme pur senza esserlo davvero.

Quel ritrovarsi insieme senza esserlo fisicamente

Una bella lettera d’amore, che sappia permettere al suo autore di rivelare i propri sentimenti e a chi la legge di rispecchiarcisi, è il medium di un’evocazione reciproca che consente agli amanti di ritrovarsi e riconoscersi anche al di fuori del tempo e dello spazio: del resto, parafrasando Spinoza, possiamo dire che amare significa proprio imparare a vivere più in profondità via via che si forma in noi, con sempre maggior precisione, l’idea di un’altra persona che impariamo a guardare. Nel XII secolo, quando Abelardo, rinchiuso in un’abbazia, dopo anni di lontananza dalla sua Eloisa murata in un monastero (anche qui, come nel caso di Wilde e Bosie, per intervento di un perfido parente: lo zio di lei, il canonico Fulberto, che ha fatto evirare l’amante della nipote nonostante lui l’abbia sposata dopo la nascita del loro figlio Astrolabio), decide di ritrovarla, lo fa con una lettera che è in realtà un’autobiografia, rivolta a un immaginario amico.

La verità: se non vuoi essere brutale, devi rispondere

La intitola Storia delle mie disgrazie e la lancia come si lancia una bottiglia nel mare, nella speranza che lei lo riconoscerà, e che sotto la superficie codificata della lamentatio saprà capire che quella lettera parla proprio a lei, che le parla di loro due. E lei, difatti, lo riconosce, e gli risponde, appassionatamente: fra i due nasce una corrispondenza clandestina nascosta in piena vista, che annulla la crudeltà di chi si è accanito contro il loro amore, brucia la distanza, il dolore, la tortura. E ci lascia con la verità più profonda sulle lettere d’amore: Adorno ha scritto che dove siamo amati possiamo mostrarci deboli senza provocare in risposta la forza, e questo atto di fiducia estremo è proprio quello che la lettera ci chiede. Perché chi la riceve lo saprà, che ci siamo esposti davvero; e che, se di fronte alla nostra vulnerabilità non vuole essere brutale, in qualche modo gli tocca rispondere.

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