14 febbraio 2020 - 00:28

Pamuk e Istanbul: «Ho fotografato la mia città quando era arancione»

Di notte lo scrittore premio Nobel cammina per le strade alla ricerca dei posti in cui sopravvive l’antica atmosfera della città turca. Ma ne sono rimasti pochi, perché quasi tutto è inondato dalla luce bianca, diventata il simbolo della furia nazionalista

di Orhan Pamuk

Pamuk e Istanbul: «Ho fotografato la mia città quando era arancione»
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Una strada nel quartiere Balat, Istanbul. La foto è stata scattata dallo scrittore turco ad agosto del 2018 (foto di Orhan Pamuk)

Sul numero sette del magazine 7, in edicola il 14 febbraio (e consultabile in versione Pdf sulla Digital edition del Corriere fino al 20,per abbonarvi cliccate qui), pubblichiamo questo testo del noto scrittore turco: si tratta di un estratto dell’introduzione che Orhan Pamuk ha voluto inserire nel suo nuovo lavoro, un libro fotografico, «Orange», che sarà pubblicato quest’anno da Steidl

Nell’arco di dieci anni, il colore dei lampioni e delle luci domestiche di Istanbul era lentamente virato dal giallo al bianco; ma quando è stata la prima volta che me ne sono reso conto? Il panorama notturno della città in cui ho vissuto per 66 anni si è trasformato ma, come quando ci troviamo di fronte alla vecchiaia e ai cambiamenti politici o climatici, è sempre difficile richiamare alla mente il momento preciso in cui si diventa consapevoli di questo tipo di fenomeni. Durante la mia infanzia e giovinezza, la luce bianca era la fredda emissione delle lampade fluorescenti che inondava ospedali, magazzini, fabbriche, sale d’attesa e frigoriferi. Al pari della malvagità, andava evitata. Sapeva ingannarci e farci soffrire. Quando mia mamma andava a comprare la stoffa per le tende, negli anni Sessanta e Settanta, chiedeva al garzone di portare fuori dal negozio il rotolo che lei aveva scelto, in modo da sfuggire al bagliore ingannevole delle lampade fluorescenti e saggiare la vera tinta del tessuto alla luce naturale.

Bambini  giocano a calcio in strada nel quartiere di Tarlabasi (foto  di Orhan Pamuk) Bambini giocano a calcio in strada nel quartiere di Tarlabasi (foto di Orhan Pamuk)

La scelta di fotografare per conservare

Un giorno, mentre già da tempo vivevo con angoscia la diffusione clandestina della luce bianca e il declino di quella arancione, andai nel vecchio minimarket sotto casa per comprare una lampadina da 75 watt e vidi la scritta sulla scatola che l’anziana negoziante mi porgeva. «Ma è bianca!», dissi. «Perché?» «Ormai la gente compra solo queste», rispose la negoziante. «Costano meno». Mi rassegnai con riluttanza al fatto che molto presto l’aspetto notturno della capitale avrebbe completamente cambiato volto. Decisi allora di fotografare i quartieri e le strade della mia città finché erano ancora immersi nella loro luce arancione: mi sarei impegnato per conservare quell’immagine di Istanbul destinata a svanire. Cominciai nell’inverno del 2016 con le strade a me ben note di Cihangir, Nisantasi e Sisli, nella zona europea di Istanbul, in cui avevo camminato così di frequente e che mi avevano regalato tante gioie nel corso degli anni. La luce bianca riempiva i bar, le vetrine dei centri commerciali e i cantieri. Più osservavo la lenta ritirata della luce gialla e il carattere completamente nuovo che le strade cittadine stavano acquisendo, maggiore era la quantità di fotografie che scattavo, mosso dalla rabbia verso tutti i miei familiari e conoscenti che trattavano la questione con totale indifferenza.

«PREFERIVO PASSEGGIARE PER LA CITTÀ
INVECE DI TRASCORRERE L’ENNESIMA
SERATA A CASA DAVANTI ALLA TELEVISIONE,
ASCOLTANDO LA RAFFICA DI BUGIE
DIFFUSE DAI POLITICI AL POTERE»

La metamorfosi dei vecchi quartieri

Ai miei amici, molti dei quali erano ormai alle soglie della vecchiaia e vivevano in quartieri relativamente benestanti, la luce bianca non interessava. Mi fecero invece notare che, grazie alle mie fotografie, si erano accorti per la prima volta di quanto fossero cambiati alcuni quartieri e strade di Istanbul negli ultimi anni. Alcune vie erano state ridisegnate dall’arrivo di immigrati arabi dalla Siria, mentre altre mostravano i segni di una nuova furia nazionalista ostile verso stranieri e nuovi arrivati; una terza declinazione di questa metamorfosi era invece il frutto della nuova influenza dei movimenti politici islamici e delle sette fondamentaliste sui quartieri del Corno d’Oro. Mi feriva e mi indisponeva la consapevolezza che queste trasformazioni sociali erano passate inosservate ai miei amici, i quali si erano abituati così in fretta da rimanervi indifferenti.

Il negozio Anteplioglu: è un droghiere che si trova a Kasimpasa, il quartiere di Istanbul dove è cresciuto il presidente Recep Tayyip Erdogan (foto di Orhan Pamuk) Il negozio Anteplioglu: è un droghiere che si trova a Kasimpasa, il quartiere di Istanbul dove è cresciuto il presidente Recep Tayyip Erdogan (foto di Orhan Pamuk)

«Iniziai a girovagare con zelo apostolico»

In quel periodo iniziai a girovagare la sera con zelo apostolico tra strade e viuzze in cui non andavo da anni. Preferivo passeggiare per la città invece di trascorrere l’ennesima serata a casa davanti alla televisione, ascoltando la raffica ininterrotta di bugie diffuse dai politici al potere. Con il suo panorama notturno Istanbul aveva sempre avuto su di me un effetto misterioso e seducente: mi ricordava che le appartenevo. Ogni volta mi sembrava che una lunga camminata di buon passo nel suo dedalo di vicoli mi avvicinasse alla fonte di quella strana energia. Forse trent’anni fa mi capitava più spesso di girare a piedi per Istanbul, tuttavia ho l’impressione di aver notato meno cose allora. Tra il 1974 e il 1980, mentre cercavo di scrivere il mio primo romanzo, la città era pervasa da un’atmosfera inquietante: gli scontri per strada a colpi di pistola tra i militanti comunisti e i nazionalisti di destra erano spietati e senza sosta. Poi, con la carenza di energia e combustibili di fine anni Ottanta e la frenata dell’economia all’inizio degli anni Novanta, le notti di Istanbul si fecero più buie.

L’energia del mistero e gli anni al buio per la crisi

I negozi non lasciavano le luci accese per pubblicizzare la merce, e nelle case le persone le spegnevano non appena lasciavano una stanza. All’epoca mi avreste trovato nel mio ufficio a scrivere fino alle tre o alle quattro del mattino, e nel tornare a casa allungavo il tragitto per crogiolarmi nella misteriosa poesia delle inferriate alle finestre e dei bovindo decadenti privi di intonaco illuminati dalla luce arancione dei lampioni. Durante quelle lunghe camminate incontravo sempre almeno un branco di cani randagi che ringhiavano ai passanti intralciandone il cammino, oppure che rovistavano furiosamente tra i bidoni della spazzatura. Mi imbattevo in ubriachi, venditori di boza e negozianti che chiudevano le botteghe per la notte.

Istanbul di notte: un gruppo di persone che mangia per strada (foto  Orhan Pamuk) Istanbul di notte: un gruppo di persone che mangia per strada (foto Orhan Pamuk)

Le speranze tradite del cosmopolitsmo

La città provinciale della mia gioventù in cui tutti si conoscevano cambiò radicalmente dopo l’elezione del Partito della Giustizia e dello Sviluppo nel 2002. La politica liberale e filoeuropea dei primi anni dell’AKP e l’apporto finanziario dell’Occidente facevano pensare alla trasformazione di Istanbul in una megalopoli cosmopolita, e noi credevamo finita l’epoca in cui giornalisti e scrittori si prendevano pallottole in strada o finivano in carcere. Ma il 19 gennaio 2007 il mio amico Hrant Dink, giornalista, venne ucciso davanti alla redazione del suo giornale: l’aver parlato apertamente e con coraggio del Genocidio armeno gli valse tre colpi di pistola alla nuca. Qualche giorno dopo la sua morte, mentre si trovava in arresto, uno dei sicari disse davanti alle telecamere che il prossimo obiettivo ero io.

Una strada illuminata, in cui campeggia una grande striscione  elettorale del partito di governo: al centro c’è Erdogan (foto di Orhan Pamuk) Una strada illuminata, in cui campeggia una grande striscione elettorale del partito di governo: al centro c’è Erdogan (foto di Orhan Pamuk)

La morte del mio amico e la libertà negata

Avevo affrontato gli stessi argomenti tabù del mio amico assassinato, e anche io avevo lamentato la mancanza di libertà di pensiero nel nostro Paese. Ritenendomi colpevole di aver insultato la cultura turca, alcuni nazionalisti mi avevano fatto causa. Da quel momento il governo turco mi assegnò una scorta, ed è anche alle mie guardie del corpo che devo le mie spedizioni fotografiche notturne. All’inizio me ne assegnarono tre: andare in giro con quei giganti al seguito era difficile e anche un po’ imbarazzante. Alla fine degli anni 2000 non trascorrevo più molto tempo in Turchia, e quando vi facevo ritorno evitavo quasi sempre di avventurarmi fuori casa. Qualche anno dopo, le minacce iniziarono a diradarsi e la scorta si ridusse a un uomo. Mi abituai a girare per la città accompagnato da una sola guardia del corpo, chiedendomi cosa pensasse nel seguirmi sempre nelle stesse strade color arancione. A volte, dopo aver camminato a una certa distanza da me, mi accorgevo dal rumore dei suoi passi che si era avvicinato: allora sapevo che stavamo per arrivare in una delle aree più pericolose della città.

Nei vicoli malfamati grazie alla guardia del corpo

Avere una guardia del corpo mutò radicalmente il mio rapporto con Istanbul. Mi bastava indossare un cappellino da baseball calandomi la visiera sul volto ed ecco che mi avventuravo nelle zone più malfamate della città senza che nessuno mi riconoscesse o me lo impedisse. Alla fine iniziai a portare con me una Leica digitale per fotografare quei quartieri lontani e misteriosi: finché avessi avuto una guardia del corpo avrei potuto documentare l’intera città, e l’idea mi affascinava enormemente. Ogni volta che scattavo fotografie nei quartieri che sfuggivano all’interesse dei turisti venivo interrotto da qualcuno che mi chiedeva cosa ci fosse da fotografare nelle loro strade povere e mediocri. Nella maggior parte dei casi non volevano proprio che lo facessi, oppure pretendevano che chiedessi prima il permesso, come per legittimare la loro autorità su quelle vie.

Una strada del centro storico di Istanbul (foto di Orhan Pamuk) Una strada del centro storico di Istanbul (foto di Orhan Pamuk)

L’intimità delle strade trasformate in salotti

La gente usciva per farmi notare che non ero autorizzato a entrare in un determinato cortile o a passare da una determinata porta. Nelle sere di bel tempo le persone trasformavano la strada quasi nel salotto di casa, e potevo capire perché alcuni di loro volessero fermarmi: si sentivano a disagio nel vedere i particolari più intimi delle loro vite, riversati nelle strade, catturati dall’obiettivo di uno sconosciuto. In quelle circostanze la mia guardia del corpo accorreva prontamente in mio aiuto, emergendo dalla penombra per mostrare il tesserino della polizia, il che ci consentiva di battere in una ritirata silenziosa e quasi colpevole mentre gli abitanti si riprendevano dalla sorpresa. Tra il 2008 e il 2014 stavo scrivendo un romanzo sui venditori di strada ambientato nei quartieri più poveri della città, e la notte trascorrevo molto tempo passeggiando e scattando fotografie in posti come Tarlabasi, Kasimpasa e Ferikoy. Rivedendo oggi quelle immagini nel mio archivio ricordo quanta poca attenzione prestassi dieci anni fa all’avanzare della luce bianca, preoccupato naturalmente dalla sempre maggiore furia nazionalista.

«GLI AMICI CHE VEDEVANO LE MIE FOTOGRAFIE
ERANO SEMPRE PIÙ PREOCCUPATI DAL
FATTO CHE SEMPRE PIÙ PERSONE INDOSSAVANO
PAPALINE, TURBANTI E ALTRI INDUMENTI RELIGIOSI»

I segni dell’odio: l’avanzata dei nazionalisti

Camminando di recente in quelle stesse strade, accompagnato dalla mia macchina fotografica e dalla mia guardia del corpo, riuscivo ancora a cogliere i segni del fervore nazionalista, interpretandoli tuttavia come l’espressione di un sentimento più smorzato e cauto. Le bandiere appese a ogni angolo senza alcuna ragione particolare erano gli indicatori di una nazione ripiegata su se stessa, mentre prima la rabbia nazionalista si alimentava dell’odio verso i curdi, gli armeni e le altre minoranze. Oggi invece quelle bandiere sono perlopiù il simbolo di un allontanamento dall’Occidente, impressione confermata anche da ciò che leggo sui giornali. L’atmosfera nazionalista si respirava più diffusamente nei quartieri tranquilli e conservatori, mentre in zone come Besiktas e Kartal, in cui la stragrande maggioranza votava in opposizione al governo, quelle stesse bandiere sembravano voler sussurrare “ci siamo anche noi!” in una città che non permetteva nessun’altra forma di dissenso politico.

Una rifugiata siriana in cerca di aiuto in una strada di Istanbul (foto Orhan Pamuk) Una rifugiata siriana in cerca di aiuto in una strada di Istanbul (foto Orhan Pamuk)

Trent’anni fa la legge imponeva l’abbigliamento laico

Gli amici che vedevano le mie fotografie erano preoccupati dal fatto che sempre più persone indossavano papaline, turbanti e altri indumenti religiosi nei quartieri conservatori come Aksaray, nel distretto di Fatih, e Carsamba. Non più di trenta o addirittura venti anni fa, mi dicevano, la polizia li avrebbe arrestati per aver violato la legge che prescriveva un abbigliamento laico ed europeo. Io invece adoravo fotografare l’umanità così com’era. La gioia più grande era scorgere il viso della gente che incrociavo per strada: mi piaceva tantissimo vedere mamme e papà che si affrettavano a rincasare con i bambini in braccio, gli innamorati che passeggiavano mano nella mano, anziani e anziane che li seguivano al proprio passo, tranquilli e sereni.

Vincitore nel 2006 del Premio Nobel per la letteratura, Orhan Pamuk, 67 anni, ha scritto diverse opere tra cui «Orange»,  da cui questo saggio è tratto Vincitore nel 2006 del Premio Nobel per la letteratura, Orhan Pamuk, 67 anni, ha scritto diverse opere tra cui «Orange», da cui questo saggio è tratto

Un silenzio perfetto, poi la folla brulicante

Mi godevo la sorpresa di attraversare il perfetto silenzio di una strada vuota per poi raggiungerne un’estremità e arrivare in una piazza affollata e vivace, punteggiata di tavoli apparecchiati e famiglie sedute a chiacchierare. Ed era altrettanto meraviglioso passare da una strada brulicante di famiglie e bambini che giocavano a calcio a una via bianca e gelida dove mi ritrovavo a camminare solo, senza alcun rumore al di fuori dei miei passi e di quelli della guardia del corpo che mi seguiva. Camminare con una guardia del corpo al seguito lungo le strade immerse nella penombra arancione accendeva la mia immaginazione, e trovavo motivi sempre nuovi per uscire a catturare il paesaggio notturno di Istanbul.

©RIPRODUZIONE RISERVATA © 2020, Orhan Pamuk

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