indagine mediobanca

Moda, aziende a controllo italiano prime per redditività. Cresce il peso sul Pil

Il primato europeo per ricavi va alle realtà francesi (inclusa Essilorluxottica), ma il sistema italiano si conferma solido e la crescita continua

di Marta Casadei

(REUTERS)

7' di lettura

Se nell’ultimo decennio e più abbiamo osservato molte eccellenze della moda italiana passare sotto l’ala dei mega-gruppi del lusso straniero, le aziende a controllo italiano non si arrendono e sono prime per redditività: l’ebit margin, infatti, è in media il 9,3% contro il 6.2% di quelle in mano a un player straniero. Se poi si analizzano le performance delle realtà quotate a controllo familiare, sempre italiano, il dato relativo alla redditività è ancora più positivo: l’ebit margin è al 13,4% in media, più del doppio rispetto a quello delle aziende a maggioranza estera.

Le aziende straniere crescono quattro volte più velocemente

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I dati arrivano dallo studio Mediobanca R&S sul settore, presentato a Milano, che ha preso in considerazione un campione di 173 società italiane che nel 2018 hanno registrato ricavi per oltre 100 milioni di euro. Di queste, 70 aziende sono di proprietà straniera e nel 2018 controllavano il 34,7% del fatturato aggregato. Una porzione significativa: se raffrontato con la quota di fatturato assorbita nel 2014 (23,9%), il dato permette di dare uno sguardo al rovescio della medaglia: l’industria a controllo estero che cresce quattro volte più veloce di quella a controllo italiano.

Il settore verso gli 80 miliardi nel 2021

Nonostante questo, dall’analisi Mediobanca emerge una moda italiana in salute, un settore di primo di primo piano: il comparto nel 2018 ha toccato i 71,7 miliardi (+3,4% sul 2017) , con un’incidenza sul Pil dell’1,2% (in aumento: nel 2014 era dell’1,1 per cento), rispetto al quale la moda, negli ultimi cinque anni, ha viaggiato a una velocità quasi doppia. In salita rispetto anche gli utili: nel 2018 hanno toccato quota 3,7 miliardi, +25,2 per cento sul 2014.

È un’industria sbilanciata sull’estero: il 72,2% del fatturato complessivo proviene, infatti, dai mercati stranieri. La percentuale supera di circa 14 punti percentuali quella del settore manifatturiero nel suo complesso (58,3%) , con l’occhialeria a registrare la porzione di fatturato estero più elevata (89,6%).

Per quanto flagellata da emergenze come quella in corso per il coronavirus, la crescita del settore non si arresterà. Almeno sul medio termine: secondo le stime di Prometeia presentate contestualmente allo studio Mediobanca, nel 2021 il fatturato arriverà a toccare gli 80 miliardi di euro.

Le aziende della moda italiana confermano anche la loro solidità: il settore è caratterizzato da una bassa incidenza del debito finanziario sul capitale netto (34% nel 2018) e da una forte liquidità, con il rapporto tra disponibilità e debiti finanziari pari al 79,4 per cento.

Il primato europeo è francese
Allargando il focus all’Europa, s ono italiani 14 dei 46 grandi player europei del settore - che nel 2018 hanno fatturato complessivamente 251,5 miliardi di euro, in salita del 6,3% sull’anno prima e del 33,6% sul 2014. All’Italia, tuttavia, non spetta il primato in termini di ricavi: complice la fusione Essilor Luxottica (la holding è basata a Parigi) il “peso” economico del Belpaese in Europa è sceso all’8,3%, mentre a primeggiare è la Francia dei grandi conglomerati, che assorbe oltre un terzo (34,6%) dei ricavi aggregati.

Asos, Moncler e Smcp (Sandro): identikit delle lepri
Sempre guardando alle aziende europee, le performance registrate nel periodo 2014-2018 premiano realtà molto diverse tra loro: la piattaforma e-commerce britannica Asos ha fatto registrare l’incremento maggiore di vendite (+25,5%), seguita dai piumini dell’italiana Moncler (+19,6%), e dalla francese Smcp (+18,9%), cui fanno capo, tra gli altri, i marchi Sandro Paris e Maje. Dietro, i gioielli di Pandora (+17,6%).

I commenti degli analisti
«I bilanci di sostenibilità ci restituiscono non solo dati sulla governance, ma anche dati relativi all'impegno socio-ambientale dell'azienda. Sono i così detti fattori Esg (acronimo inglese che sta per environment, social, governance) – ha spiegato Nadia Portioli, della Area studi di Mediobanca –. C’è cambiamento epocale in atto: oggi le aziende non possono più permettersi di concentrarsi solo sulla performance finanziaria, devono anche saper veicolare un messaggio in merito al loro posizionamento sul tema green perché questo sta diventando un fattore sempre più discriminante nelle scelte del consumatore che, mutatis mutandis, può essere visto anche come investitore. Consumatore e investitore Esg.

Il valore della diversità (di genere e non solo)
«Isolando i gruppi dinamici, ovvero quelli con una redditività e un ritmo di crescita superiori alla media del panel, rispetto al totale dei gruppi europei scopriamo due aspetti – ha aggiunto Nadia Portioli –. Il primo è che il gap di gender tende ad aumentare con l'aumento del livello di responsabilità, il secondo è che nei gruppi dinamici la presenza femminile è sempre superiore, a tutti i livelli».

La reputazione e le ricerche online
A determinare la crescita prevista da Prometeia per il 2021, ha spiegato Alessandra Lanza, senior partner della società di analisi, concorrono indubbiamente la visibilità e la reputazione online. «I 559 brand delle 173 aziende considerate vengono cercati su internet circa 300 milioni di volte al mese, con 57 brand che superano il milione di ricerche ciascuno. Numeri che si riflettono nella crescita della domanda, che si stima aumenterà di €1,7 mld in due anni. «Attualmente, i paesi in cui il fashion italiano è più cercato online sono Germania e Stati Uniti, seguiti da Cina e Russia. Enorme, ma ancora parzialmente inespresso, il potenziale dei marchi italiani in paesi come Australia, Brasile, India, Polonia, Canada e Messico, dove il volume di export è inferiore rispetto alla popolarità dei brand – ha spiegato Alessandra Lanza –. In generale, nonostante i più giovani, specialmente negli Stati Uniti, mostrino meno interesse per la moda italiana rispetto ai genitori e ai nonni, i più famosi marchi italiani guidano le classifiche delle ricerche online del settore».
Per quanto riguarda le keyword associate ai brand italiani nella ricerca online, non sorprende che tra le più utilizzate ci siano qualità, autenticità e affidabilità. Meno scontata ma molto gettonata l'associazione con sostenibilità, online shopping, cruelty e conflict-free: sintomo dei nuovi trend di consumo globali, intercettati opportunamente dai marchi italiani.

Le tavole rotonde
Sollecitati (anche) dai dati del Report di Mediobanca, Marco Marchi, amministratore unico di Eccellenze Italiane Holding, e Alessandro Varisco, ceo Twinset, hanno condiviso parte delle strategie delle rispettive aziende e parlato della necessità di affrontare nel concreto i temi della sostenibilità e inclusività. «Eccellenze Italiane Holding è nata dal desiderio di salvaguardare il patrimonio stilistico e di know how artigianale, ma anche manifatturiero, di realtà italiane che faticano, inevitabilmente, a competere nell’era della globalizzazione – ha spiegato Marchi, noto finora come fondatore e amministratore delegato di Liu Jo –. La prima acquisizione è stata quella di Blufin, che controlla il marchio Blumarine. Non c’è sovrapposizione con Liu Jo e stiamo lavorando al rilancio. Salteremo la prossima tornata di sfilate a Milano, ma per tornare con ancora maggior convinzione in settembre». La holding è nata con risorse interne e la crescita di Liu Jo è finanziata nello stesso modo: «Per ora restiamo indipendenti e, grazie alla solidità dell’azienda, ci appoggiamo alle banche, che a loro volta ci danno fiducia. Per il futuro, non escludo niente. O meglio: posso dire che Eccellenze Italiane Holding farà altre operazioni, è presto però per anticiparle».

Alessandro Varisco ha raccontato la sua esperienza alla guida di un’azienda in cui è presente un fondo, l’americano Carlyle, molto attento – come tutte le società americane – alla certificazione dei parametri di inclusività e diversità. Tutto interno all’azienda e alle strategie orchestrate da Varisco è invece il progetto Please don’t buy, primo esempio di renting interno a un’azienda e che non si appoggia a piattaforme specializzate nell’affitto di abiti e accessori.

Please don’t buy, lanciata nel 2019, è una collezione di abiti di tulle e volant, seta e cachemire, impreziositi da dettagli lussuosi, da cerimonia, matrimoni, eventi particolari che, se acquistati, costerebbero dai 900 ai 3mila euro, ma che possono affittati a un prezzo variabile da 40 a 90 euro, per alcuni giorni. «Mi piaceva il concetto di educare un po' i giovani, che non possono permetterselo, alla qualità - ha detto Alessandro Varisco, ceo di Twinset -. La generazione che intendevamo attirare è quella delle giovani sotto i 25 anni, che rappresentava solo il 5% della clientela. Ma ho avuto una bella sorpresa, come spesso capita in questo lavoro: Please don’t buy ha attirato clienti di ogni età. Piace a tutte anche l’aspetto di sostenibilità, di progetto di economia circolare».

Claudio Marenzi ha raccontato il percorso di crescita di Herno, che in meno di 15 anni è passata da pochi milioni di euro a oltre cento di fatturato. «Abbiamo puntato sul marchio di proprietà, certo. Ma anche su una visione di tracciabilità e sostenibilità maturata molto prima che il tema diventasse il mantra del settore». Marenzi è stato anche presidente di Sistema moda Italia ed è oggi, ancora per qualche mese, alla guida di Confindustria Moda e di Pitti Immagine. Indossa sempre un doppio cappello: di imprenditore e di osservatore privilegiato della filiera. «Dobbiamo difendere questo patrimonio di piccole e medie imprese che compone il tessile-moda-abbigliamento. E approfitto per sottolineare che tenendo conto di tutte queste realtà il giro d’affari sale rispetto a quello indicato nel Report: siamo a oltre 90 miliardi, proprio perché esistono - o forse sarebbe meglio dire resistono - le aziende piccole, quasi sempre famigliari».

Ercole Botto Poala, ceo di Successori Reda, una delle eccellenze del tessile italiano, ha detto scherzando che «si dovrebbe proibire per legge un passaggio generazionale troppo prolungato nel tempo». In realtà all’interno di Reda la governance funziona perché tutti i membri della famiglia hanno condiviso regole e paletti. «Per il futuro non escludo nulla: quotazione, ingresso di un fondo, opzione club deal. Come imprenditore, so che crescere è necessario, non esiste la decrescita felice. Ma sicuramente mi assumo la responsabilità di farlo diminuendo l’impatto sull’ambiente – ha spiegato Botto Poala –. Per essere sostenibili però occorre essere trasparenti, certificati e onesti con i clienti. Devo dirlo: la sostenibilità costa e molti non sono disposti a pagarla . Noi però siamo convinti che sia la strada giusta».


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