«Noi precarie, ma innamorate delle scienza»

L'11 febbraio è la giornata internazionale indetta dall’Onu a favore delle donne nella scienza. Le storie delle ricercatrici italiane intrecciano passione e precariato
«Noi precarie ma innamorate delle scienza»

Alla domanda se cambierebbero la loro scelta di studi e carriera la risposta è sempre no ed è uguale per tutte anche se c’è chi si occupa di linguistica, chi di biotecnologie e chi di geofisica. Il comune amore per la scienza e gli studi è il sentimento che fa passare sopra ad anni di incertezza e precariato.

Vale per gli uomini e per le donne, ma per queste ultime un po’ di più. Raccontano le statistiche, pubblicate anche nella giornata dell’11 febbraio che l’Onu dedica alle donne e la scienza, che si parte spesso con un numero non dissimile di studenti universitari per genere, ma che alla fine ai ruoli di vertice arrivano sempre gli uomini.

A questo si aggiunge la scarsa propensione italiana a spendere in istruzione. Secondo i dati Eurostat del 2017, l’Italia ha investito nell’istruzione pubblica il 7,9% della sua spesa pubblica totale, ultima fra i paesi dell’Unione. È la cornice delle storie di precariato e amore per la scienza che hanno portato tre donne nel team italiano che ha isolato il coronavirus all’ospedale Spallanzani e decine di altre a lavorare fra dottorati e assegni di ricerca.

LETIZIA E I TERREMOTISei anni di precariato che diventano 10 se si aggiungono quelli della tesi e del dottorato. Il suo campo è la geofisica,  i terremoti in particolare. «Le materie scientifiche mi sono sempre piaciute tutte eppure l’attrazione che avevo verso questa materia non era comparabile». Sposata da 4 anni e senza figlia, con la casa comprata solo quando il marito ha avuto il contratto a tempo indeterminato.

Programmare a lungo termine per lei è difficile. «Ho vissuto tante fasi diverse della ricerca, dalla crisi economica al blocco dei concorsi fino alle ultime stabilizzazioni. Il continuo cambiamento di regole nel reclutamento all’interno del mondo della ricerca non ti permette di credere nella meritocrazia purtroppo, non si può dire “se mi impegno abbastanza e faccio il possibile alla fine sarò premiata”. Per cui ho sempre navigato un po’ a vista cercando di cogliere le opportunità che mi sono capitate».

Il pensiero di lasciare è venuto tante volte. «C’era un periodo, quando ero assegnista di ricerca, che controllavo LinkedIn tutti i giorni…eppure alla fine non ho mai fatto “il salto” perché quello che sto facendo è quello che ho sempre desiderato». Nonostante la precarietà. «Essere ricercatori precari significa che spesso si è vincolati a progetti specifici di durata limitata sui quali si viene pagati. Questo significa che ufficialmente il mio lavoro si dovrebbe focalizzare solo sul quel progetto, mentre posso avere eventuali collaborazioni e attività diverse da quelle per cui sono pagata ma senza alcun sostegno finanziario, necessario però per pagare pubblicazioni o partecipazioni a convegni».

Invece nel formarsi una carriera servirebbe lavorare a più progetti. «Nella fase di precarietà bisognerebbe avere più collaborazioni possibili per costruirsi una carriera e se non si trovano queste cose nel progetto in cui si è inseriti, si rischia di rimanere isolati e di dover dipendere al 100% dai propri superiori…si rischia di cadere nel meccanismo del cosiddetto "baronato” che non fa bene alle persone precarie, ma ancora meno alla ricerca. Come mi aspetto il giorno dell'assunzione? Vorrei solo sentire di essermelo meritato».

LUCIANA E LE LINGUEIl suo campo di studio è la linguistica applicata. Le Nuove tecnologie applicate allo studio delle lingue. Laurea alla Sapienza di Roma, dottorato a Perugia. «Attualmente ho un assegno di ricerca che scade a luglio e non è rinnovabile. All’Università per stranieri di Perugia mi trovo magnificamente dal punto di vista scientifico, sono in uno dei posti migliori per la mia ricerca, ma non mi può essere garantita la continuità».

Luciana fa parte dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia per cui si occupa di cultura e parità di genere (che manca). «Al momento del dottorato c’è ancora parità, ma, man mano che si procede verso le posizioni apicali, si arriva fino alla prima fascia, quella dei professori ordinari, al 22-23% di donne». Come mai avviene questo? «Tante iniquità a partire dal congedo di maternità che ha lo stipendio all’80% per le donne, mentre quello parentale arriva appena al 30%. Sono sempre le donne a fermarsi quando hanno figli, i padri non potrebbero neanche farlo». C’è ancora anche la “segregazione” orizzontale, quella che vede alcuni settori prevalentemente occupati da uomini.

Il pensiero del cambiamento c’è stato anche per lei. «Per un anno ho insegnato, cosa che amo, ma mi mancava la ricerca. Se non dovessi trovare opportunità in Italia, per continuare nel mio studio, andrei all’estero. Sarebbe il male minore rispetto a cambiare completamente mestiere».

Questo però comporta il passaggio obbligato nella precarietà. «Nella ricerca universitaria non esistono posizioni a tempo indeterminato, la prima posizione accademica stabile è quella di professore associato. Servirebbe una riforma della contrattualizzazione dei ricercatori: ci sono contratti precari che non danno alcuna certezza di carriera dopo la riforma Gelmini, quelli più precari e meno protetti sono per la maggioranza occupati da donne. Giusto che ci siano contratti a tempo determinato con tutele e possibilità di carriera».

ELISA E LE BIOTECNOLOGIELaurea a Padova in biotecnologie e dottorato in scienze molecolari e due assegni di ricerca, il secondo ancora in corso a Milano. Anche Elisa, non ancora trentenne, fa parte dell’Adi. «Ho sempre saputo che avrei studiato materie scientifiche. Erano le materie che mi piacevano di più già al liceo. Il mio lavoro mi piace molto, ma senza passione sarebbe impossibile farlo sapendo che sono contratti brevi, di anno in anno, senza lavoro di lungo termine».

Il primo problema secondo lei sono i finanziamenti «assolutamente inadeguati» e subito dopo viene la foresta dei contratti in quella fase che si chiama pre-ruolo, prima di avere una cattedra all’università (in media ora questo percorso dura 12 anni). «Ce ne sono di ogni forma e durata, la maggior parte senza tutele come tredicesima e quattordicesima, non ci sono ferie. La carriera accademica non aiuta nella pianificazione del resto della vita». Nonostante questo, il suo piano A è quello della carriera accademica, senza escludere la possibilità di un lavoro esterno e di un’esperienza all’estero.

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