10 febbraio 2020 - 07:28

Parasite, il film sudcoreano che sconfigge 1917 e Martin Scorsese

Per la prima volta nella storia degli Oscar un film straniero vince il miglior film e la miglior regia. Brad Pitt attacca Trump, mentre Phoenix ricorda il fratello morto

di Giuseppe Sarcina

Parasite, il film sudcoreano che sconfigge 1917 e Martin Scorsese
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L’Oscar è sud coreano. Le statuette più importanti vanno a «Parasite»: miglior film, miglior regista, Bong Joon Ho, migliore pellicola straniera. La sorpresa dell’anno, un’opera spiazzante, Palma d’Oro a Cannes, trionfa anche al Dolby Theatre di Los Angeles. Due i grandi sconfitti, il kolossal (forse un po’ troppo) «1917» di Sam Mendes e «The Irishman» di Martin Scorsese. La platea ha riservato al grande regista italo-americano una delle poche standing ovation, ma l’Academy gli ha mandato un segnale fin troppo crudele: nessun premio per lui, né per i giganti del suo film, Al Pacino e Joe Pesci, inseriti nella categoria per gli attori non protagonisti.

Oscar 2020, i vincitori
Miglior film: «Parasite»

Hollywood apre a una cinematografia lontana, anche se il regista Bong Joon Ho si è professato «allievo» di Scorsese, «ammiratore» di Quentin Tarantino e così via. Al di là del giudizio sul film (ma il nostro critico Paolo Mereghetti faceva il tifo per «Parasite») la 92 esima edizione si apre al mondo con un effetto salutare anche per il cinema e la cultura americani. Tutto o quasi come previsto, invece, nel resto del tabellone. Miglior attore protagonista l’insuperabile Joaquin Phoenix, per Jocker. Tra le attrici svetta Renée Zellweger, per «Judy». Nell’anno elettorale, con le primarie democratiche in pieno corso, e a nove mesi dalle presidenziali, Hollywood ha preferito fare un passo indietro.

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Joaquin Phoenix: la dedica al fratello

È sembrato che le star, registi, attori e attrici, abbiano accuratamente evitato di uscire dal perimetro dello show, limitandosi a leggere i messaggi standard di ringraziamento. Hanno fatto eccezione le tre stelle premiate. A partire da Brad Pitt che ha attaccato Trump: «Mi hanno detto che avevo solo 45 secondi qui, 45 secondi in più di quanto il Senato ha dato questa settimana a John Bolton», ha detto, prendendosela dunque con il Senato a maggioranza repubblicana che bloccato la testimonianza di Bolton, ex Consigliere per la sicurezza nazionale, nel corso del processo per l’impeachment del presidente Donald Trump. Poi Phoenix, molto emozionato che ha innanzitutto ricordato il fratello River, scomparso per overdose 26 anni fa. Passando quindi a temi più generali: «Ho pensato molto a questi problemi difficili che dobbiamo fronteggiare collettivamente. E penso che talvolta pensiamo di impegnarci per cause diverse. Ma io vedo un tratto comune. Ogni volta che parliamo di ineguaglianza tra i generi o di razzismo o di diritti degli LGBT o degli indigeni o degli animali, noi stiamo parlando di una lotta contro l’ingiustizia». Poi si è soffermato sulle «crudeltà» inflitte dall’uomo «pensando di essere il centro del mondo»: «Noi facciamo in modo che le mucche siano inseminate artificialmente e poi togliamo loro i vitelli e togliamo loro il latte da mettere nel nostro caffé».

Renée, invece, ha cominciato a parlare in maniera svagata, alla Bridget Jones, passando in rassegna «gli eroi» americani. Un elenco lungo: da Bob Dylan ai vigili del fuoco, fino a «Judy», Judy Garland. Qual è la loro eredità comune? È la capacità «di unire», «di includere»: »è ciò che ha fatto grande l’America». È un concetto largamente diffuso nell’area liberal, che abbiamo sentito evocare tante volte negli ultimi mesi di aspra battaglia politica a Washington. L’esempio dei «best angels» contrapposto, a torto o a ragione, alla politica «divisiva» trumpiana. Renée, però, lo ha detto con un sorriso, per il resto ha prevalso la prudenza.

Tutto liscio quando Brad Pitt e Laura Dern hanno ringraziato per i loro premi come migliore attore e attrice non protagonista. Persino quando sarebbe stato naturale sconfinare, non è accaduto. Così Julia Reichert, ritirando il premio per «American Factory» nella categoria documentari, ha spiegato che il lungometraggio racconta la vicenda di una fabbrica dell’Ohio passata ai cinesi, con tutto quello che ne è conseguito in termini di organizzazione e ritmi di lavoro. Quindi ha menzionato «il grande sostegno» di Netflix, ha citato la Higher Ground Productions, ma ha dimenticato di ricordare chi sono i fondatori: Barack e Michelle Obama. Eppure i registi Steven Bognar e la stessa Reichert hanno girato una lunga conversazione con l’ex presidente e la ex First Lady, proprio per presentare e, ovviamente, dare grande visibilità ad «American Factory».

«Il nostro film – ha detto Reichert – descrive la vita difficile dei lavoratori. Credo che le loro condizioni possano migliorare solo se uniscono in tutto il mondo». L’Ohio, i «blue collar», la protezione delle fabbriche americane sono ancora temi cardini della campagna elettorale di Donald Trump. Non è un caso, dunque, se gli Obama abbiano iniziato la loro attività di produttori proprio con «American Factory». Piccolo lampo del movimento «MeToo» in un’edizione preceduta dalla polemica, ormai strutturale si può dire, per l’assenza di nomination al femminile per la regia. Sigourney Weaver ha invitato le donne a «insistere»: «per il momento consoliamoci con la prima donna direttrice d’orchestra, Eimar Noon».

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Solo una parentesi dedicata alla cultura afroamericana, altra fonte di controversie croniche. Cynthia Erivo non poteva battere Zellweger, ma ha cantato in modo strepitoso, celebrando la figura di Harriet Tubman, la «liberatrice di schiavi» dell’Ottocento. Il film «Harriet» qui non ha lasciato traccia, ma Tubman è stata celebrata più volte. Obama avrebbe voluto mettere il suo volto sulle banconote da 20 dollari al posto dell’effigie del controverso presidente Andrew Jackson. Con Trump non se n’è fatto più niente. Infine una nota di colore e di divertimento con Elton John, sempre grandissimo al pianoforte. Ha vinto l’Oscar per la migliore canzone originale: «(I’m gonna) Love me again» in «Rocketman».

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