5 febbraio 2020 - 21:42

D’Acquarone: «Il mio bisnonno Toscanini rifiutò il fascismo, io i lacchè» Il mio
bisnonno
Toscanini
rifiutò
il fascismo,
io i lacchè

Pier Filippo d’Acquarone, ex conduttore del Tg4 e pronipote del ministro che fece cadere il Duce: «Ho cercato la verità sullo zio Cesare, ucciso nel 1968 ad Acapulco». «Emilio Fede, che è stato mio direttore per quasi 30 anni, era un fuoriclasse, da lui una lezione potevo accettarla. Da altri no»

di Stefano Lorenzetto

D'Acquarone: «Il mio bisnonno Toscanini rifiutò il fascismo, io i lacchè» Il mio bisnonno Toscanini rifiutò il fascismo, io i lacchè
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Si è dimesso sei anni fa per «non tirare fuori la lingua», che nel suo linguaggio felpato significa non dover leccare stivali. Noblesse oblige. Oggi il duca Pier Filippo d’Acquarone non ha né stipendio né pensione. Pochi dei telespettatori che lo vedevano condurre il Tg4 conoscono gli enciclopedici intrecci familiari di questo giornalista «colto, distinto, rassicurante» (Klaus Davi, massmediologo). È nato a New York dieci giorni dopo la morte del bisnonno Arturo Toscanini. La madre Emanuela di Castelbarco Pindemonte Rezzonico era figlia di Wally, secondogenita del celebre direttore d’orchestra e sorella di Wanda, che sposò il pianista Vladimir Horowitz. Il nonno, Pietro d’Acquarone, ministro della Real Casa dal 1939 al 1944, fu il tessitore del colpo di Stato che il 25 luglio 1943 portò alle dimissioni e all’arresto di Benito Mussolini e alla nomina del maresciallo Pietro Badoglio a capo del governo. La nonna, Maddalena Trezza di Musella, era l’erede della società anonima finanziaria che ebbe in appalto dal Regno d’Italia l’esazione di dazi e tributi in oltre 700 Comuni. Lo zio, Cesare d’Acquarone, ex amante di Eleonora Rossi Drago, l’attrice reduce da infelici relazioni con Amedeo Nazzari e il principe Alfonso di Borbone, fu assassinato nel 1968 ad Acapulco dalla suocera.

Manca all’appello solo suo padre, il duca Luigi Filippo d’Acquarone.
«Il titolo di duca e la “d” apostrofata furono due regalie di Vittorio Emanuele III al nonno, che aveva anche insegnato al principe Umberto come si va a cavallo. I miei si separarono quando avevo 5 anni. Papà faceva il floricoltore a Sanremo. Io andai a stare a Roma con la mamma. Vissi le sue storie d’amore, la più lunga con Aldo Borletti, l’industriale dei “punti perfetti”, detto Micio. Non potevo raggiungere mio padre in Liguria. Lui si risposò ed ebbe altri due figli, fatti nascere a Londra per non dare scandalo».

Credevo che aveste abitato insieme nella tenuta veronese della Musella.
«Solo per brevi periodi. La villa settecentesca è stata poi venduta dai miei fratellastri a un magnate russo, o forse kazako, che la usa di rado. Sua moglie, patita di agricoltura biologica, pare abbia piantato rapanelli nel giardino che mia nonna Maddalena fece disegnare a Russell Page, l’architetto del verde prediletto da Gianni Agnelli. A me sono rimasti 5 dei 400 ettari di parco, un legato in sostituzione della legittima, oltre alla casa dell’ultimo mezzadro e a un posacenere di bachelite che ho ritrovato nell’emporio della Comunità di Emmaus».

Suo padre era iscritto alla sezione del Pci di San Martino Buon Albergo.
«La tessera non l’ho mai vista. Però è vero che lo chiamavano “il duca rosso”. A Sanremo coltivava le rose e andava a venderle con il motocarro Ape, come i suoi operai. Girava in Fiat 500 Giardinetta o in Citroën Ds Pallas, mai avuta la Ferrari. La svolta comunista avvenne da presidente della società Trezza, quando nel municipio di una grande città il sindaco gli donò una Divina Commedia dicendogli: “A casa legga alla pagina 320”. Dentro c’era una mazzetta che avrebbe dovuto agevolare l’appalto per la riscossione delle tasse. Si dimise e cambiò mestiere».

Un puro.
«Un mite, chiamato Celeste per il colore degli occhi. Di poche parole. Difficile conversare con lui su un tema che non fosse la caccia. A differenza di mia nonna Wally, gran chiacchierona che riuscivo a reggere solo tappandomi le orecchie, non parlava mai di chi non conosceva. Gli presentai due mie compagne ed entrambe le volte sbuffò: “Stai perdendo tempo”. Una volta gli dissi che volevo andare in analisi. “Vai a puttane”, ribatté».

Lei quante mogli ha avuto?
«Due. La prima fu Antonella, la più giovane delle quattro figlie di Federico Gallarati Scotti e Lavinia Taverna, suoceri adorabili che mi adottarono. La seconda Elizabeth Dallimore Mallaby, meglio conosciuta come Spray Mallaby, la bionda con il flauto dei Gatti di Vicolo Miracoli delle origini. La conobbi a Rete 4 e la invitai a cena. “Che peccato, devo sposarmi fra una settimana”, si scusò. Passati tre anni, tornò a cercarmi».

Davvero Elizabeth è figlia di una spia?
«Di due spie, Cecil Richard Mallaby e la moglie Christine, inglesi. Il padre, paracadutato per due volte nel lago di Como, ebbe un ruolo decisivo nelle trattative fra gli Alleati e Badoglio che l’8 settembre 1943 condussero all’armistizio».

Dal matrimonio è nata la sua unica figlia, Viola Veronica, giusto?
«Sì. In arte Veyl, musicista elettronica. Per la Sony classical ha lavorato ai cd di Enzo Bosso e all’album “Mina Fossati”».

Sua figlia ha dichiarato che il trisavolo Arturo Toscanini «si metterebbe le mani nei capelli» se ascoltasse la sua musica.
«Non credo. Ne sarebbe incuriosito. E chissà che cosa direbbe di Nicoletta Gemnetti, collega della Radiotelevisione svizzera, la meravigliosa compagna che mi sopporta da 17 anni. Sa, il mio bisnonno aveva un credo: “Una sola famiglia, una sola patria”. Fu tenuto al riparo dalle turbolenze sentimentali di mia nonna Wally, corteggiata da Gabriele D’Annunzio, alle cui profferte mai cedette perché diceva che la sua bocca la faceva inorridire, e di Charlie Chaplin, che la volle conoscere dopo essersi innamorato di un suo ritratto oggi custodito da me. Prossimo alla fine, si dispiacque molto di non poter vedermi nascere».

Perché ha fatto il giornalista?
«Il mio sogno era diventare regista. Mi comprai una reflex. Wally inorridì: “Sarai mica frocio come Luchino?”. Parlava di Visconti, del quale si vociferava che fosse figlio naturale di mio nonno. Mi affidò all’amico Valerio Zurlini. Avrei dovuto diventare suo assistente alla regia in Di là dal fiume e tra gli alberi, un film che non fu girato. Dopo la naia, andai a vivere a New York. Entrai alla Rai corporation, dove Antonello Marescalchi mi commissionò un documentario di tre minuti sulle foche uccise a randellate in Canada. Mai andato in onda: troppo sangue. Quando la Abc fece un accordo con la Mondadori per Rete 4, fui comprato da Silvio Berlusconi insieme con i mobili».

Nel 2014 se ne andò. Perché?
«Intervistai più volte il Cavaliere e nessuno mi disse mai: “Fa’ così, fa’ cosà”. Da Emilio Fede, che è stato mio direttore per quasi 30 anni, una lezione potevo accettarla, perché era un fuoriclasse. Da altri no. Un conduttore tv tiene le sue opinioni per sé e non fa da megafono a quelle altrui. Al Tg4 arrivò Giovanni Toti. Poi Mario Giordano. Lo accolsi recuperando quattro riposi arretrati. L’ultimo giorno che ero a casa, mi chiesi: ma perché dovrei tornare a stringergli la mano? E non mi ripresentai mai più al lavoro».

Invece il rapporto con Fede com’era?
«Schietto, con momenti di elevata ostilità. Una volta mi scaraventò addosso un’intera pila di libri, che purtroppo colpirono il collega Mauro Buffa. Bastardissimo come tutti i direttori, se ti ammalavi tirava fuori il meglio dalla sua agendina per farti curare. Molti redattori, io compreso, gli devono la vita».

Toscanini espatriò dopo essere stato schiaffeggiato a Bologna dallo squadrista Guglielmo Montani per non aver eseguito «Giovinezza». Che avrebbe detto del pronipote in un tg di centrodestra?
«Di sicuro mi avrebbe dato del pirla».

Suo zio Cesare fu ucciso ad Acapulco quando lei aveva 11 anni. Come lo seppe?
«Ero con mia madre nel Castello di Avio, che nel 1977 avrebbe donato al Fai. M’informò mentre in auto accorrevamo a Verona. Lo zio, appena 42 anni, aveva fondato la Aeralpi e sposato Claire Diericx, splendida ventenne, figlia di un diplomatico belga con la faccia da nazista. Mio padre si rifiutò di partecipare ai funerali nella tenuta della Musella».

Per quale motivo?
«Quando era uscito dalla società Trezza, suo fratello gli aveva bloccato i conti in banca. Papà non ha mai creduto che Cesare fosse stato ammazzato “per errore” con cinque colpi di pistola dalla suocera messicana Sofia Bassi de Celorio, che si autoaccusò del delitto. La Walther 32 non spara a ripetizione».

Secondo lei, che cosa accadde?
«Sulla scena del delitto c’erano altre persone insieme con Claire e sua madre, forse il padre e il fratello, forse la bambinaia inglese Nancy Hargreaves. La vedova non ereditò, quindi il movente non va cercato nei motivi d’interesse. Nel 1973 in Messico ebbi un incontro con mia zia. Capii che sapeva, ma che non voleva raccontarmi la verità. Credo che viva ancora là, quasi cieca. Invece la figlia Chantal, mia cugina, si è trasferita in Italia. Da ragazzo a volte fui loro ospite sulla Montecristo, una motovedetta militare adattata a yacht che tenevano ancorata in Costa Azzurra, dove mia nonna Maddalena Trezza possedeva Villa Isoletta».

Benché i titoli nobiliari siano stati aboliti dalla Costituzione, si sente duca?
«No».

Vede in giro padri nobili della patria?
«Li devo cercare tra i defunti. Conducevo il Tg4 delle 19 quando Giovanni Falcone cadde nella strage di Capaci. Ai funerali a Palermo vidi Paolo Borsellino e capii che avrebbe fatto la stessa fine».

Conosce qualcuno di casa Savoia?C
«Vittorio Emanuele, la moglie Marina e il figlio Filiberto, superficialmente».

Si trova meglio con Conte e Di Maio.
«Ora non esageriamo».

Pier Luigi Duvina, presidente della Consulta dei senatori del Regno, mi disse: «Solo il re è super partes, perché non deve concedere favori per essere eletto».
«Per quello resiste ancora la monarchia da qualche parte del mondo. Però io mi sento molto democratico. Sono lontano da tutti gli “ismi”. Ho votato Pri e Pli, mai Forza Italia o più a destra».

Che significa essere nobili?
«Avere comprensione verso gli altri».

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