Tutto su Rula Jebreal, e sua madre

Volete sapere tutto su Rula Jebreal, la giornalista italo-israeliana che all'Ariston ha commosso l'Italia? Su Vanity Fair si è raccontata senza filtri
Tutto su Rula Jebreal e sua madre

Sul biglietto da visita di Rula Jebreal l’intestazione verde arancio dice: «University of Miami». La giornalista italo-israeliana lavora alla facoltà di Scienze politiche e vive tra New York e la Florida. «Ogni due mesi vengo in Italia a trovare mia figlia Miral». Il cartoncino che ho tra le mani me lo dà a fine intervista, «è comodo», dice.

Come è riapparsa al Festival di Sanremo?«A ottobre ero a Bologna per Miral, che ha 23 anni e si è appena laureata in Storia dell’arte. Mi chiama Amadeus: non lo conoscevo, mi voleva incontrare. Ero sicura che mi cercasse perché lo aiutassi con i personaggi internazionali, non so, Michelle Obama...». E invece?«Mi ha detto: magari, ma voglio te. E io: sei sicuro?». Come ha reagito alle critiche di chi non la voleva al Festival?«Ero sorpresa. Era inizio gennaio, c’era una crisi pazzesca tra Iran e Stati Uniti, si temeva una terza guerra mondiale e in Italia si parlava di Sanremo e Rula Jebreal, ricevevo minacce di morte. Non solo: si proponeva di affiancare al mio monologo contro la violenza sulle donne un contraltare, e quale? Un molestatore che esaltasse lo stupro? Incredibile». Alla fine è soddisfatta del suo monologo?«A Sanremo, nel posto della canzone d’amore, ho letto i tristi dati italiani: negli ultimi tre anni tre milioni di donne sono state molestate sul lavoro, e sono quelle che hanno avuto la forza di denunciare. Ho parlato al cuore delle persone, non è un discorso di destra né di sinistra». Che cosa ha detto ad Amadeus, invece, della sua frase sulle donne che «fanno un passo indietro»?«È stata una frase fraintesa, credo davvero che fosse in buona fede. Lo ammiro perché ha fatto la scelta coraggiosa di chiamare dieci donne a condurre con lui, e mi auguro che per le prossime edizioni ci siano direttrici artistiche». Che cosa risponde, a chi, in Italia, dice che è diventata famosa in tv grazie al suo aspetto?«Gli amministratori delegati delle cento società più importanti del mondo sono tutti uomini: nessuno si chiede se abbiano avuto successo perché sono belli. Nessuno può essere selezionato in un sistema come quello americano – scrivere per il Washington Post, apparire sulla Cnn, Msnbc, Cbo, Hbo, Cbs, o diventare un docente universitario – per l’aspetto fisico. Sarebbe un insulto a queste organizzazioni. Sa che cosa mi ha aiutato? Il duro lavoro, raccontare la verità». Chi sono i suoi idoli?«Alcuni dei miei amici, e colleghi. Marie Colvin, dell’Independent, uccisa in Siria nel 2012, mentre raccontava la guerra. Jamal Khashoggi, conosciuto a un evento del Washington Post. Aveva letto il mio pezzo, sullo stesso giornale, che prevedeva l’elezione di Trump già nel 2015.Mi chiese: “Assomiglia a Berlusconi, quindi?”. E io: “Guarda, secondo me Berlusconi è uno statista in confronto”. Siamo diventati subito amici». Come è stato il suo arrivo negli Usa?«Con Julian (Schnabel, suo compagno tra il 2007 e il 2011, ndr) vivevamo a New York. È stato uno shock culturale, perché gli americani sono diretti, schietti, “io ti do questo, tu mi dai questo”. Ma, certo, ho avuto il vantaggio della visibilità del film, Miral, tratto dal mio romanzo e girato da Julian, che era stato proiettato all’Onu». È in quell’occasione che ha conosciuto Michelle Obama?«No, prima. Avevo consigliato a Julian di finanziare la campagna elettorale di Barack, eravamo sostenitori. In più un mio caro amico, James Costos, ex-direttore di Hbo, era diventato, sotto Obama, il primo ambasciatore gay, in Spagna. Suo marito, Michael Smith, è quello che ha arredato la Casa Bianca. Quindi ho conosciuto gli Obama, che sono splendidi». Come ha iniziato invece a fare la giornalista negli Stati Uniti?«Ho chiesto un colloquio con Tina Brown, nel 2011 direttrice da un mese di Newsweek. Mi riceve e dice: hai cinque minuti per convincermi a metterti sotto contratto. Ho risposto: parlo l’arabo e l’ebraico, posso portarti un’intervista a Ruth, la vedova di Moshe Dayan, la storia di Israele di ieri e di oggi, delle interviste con delle donne siriane stuprate, posso scrivere degli scandali di Berlusconi… Lei ha detto subito: l’Italia non mi interessa. Voglio le donne siriane e Moshe Dayan, quando puoi partire? Dopo Newsweek hanno iniziato a chiamarmi le tv, il New York Times e il Washington Post». Veniva dalla tv italiana, che differenze con quella Usa?«L’ambiente è più competitivo, devi essere super-preparata». Erano gli anni dello scandalo sulle molestie di Fox News.«Lì sono apparsa solo due volte, a me non è successo nulla, del resto sono famosa per essere aggressiva, probabilmente erano intimiditi. Spesso i mostri fiutano le prede quando sono giovani e vulnerabili». Lei ha conosciuto Harvey Weinstein, produttore del suo film. Che cosa ricorda?«Stavo con Julian quindi con me non ci ha mai provato. Però una volta l’ho visto maltrattare una sua assistente, gli urlava addosso e lei è scappata via piangendo. Gli ho detto: sei molto fortunato, io ti avrei malmenato, tu saresti finito all’ospedale e io in carcere. Ho provato un disprezzo totale. Donne come me, che hanno avuto in famiglia dei casi di abuso...». Ne ha parlato anche nel suo monologo.«Mia mamma si è tolta la vita dopo un’infanzia di violenze tra i 13 e i 18 anni, nessuno le aveva creduto per salvare “l’onore” della famiglia. Mio padre ha portato me e mia sorella, di 5 e 4 anni, in un orfanotrofio di Gerusalemme Est. Ci ha salvate: non riusciva a occuparsi di noi, era malato di cancro ed è morto qualche anno dopo». Che cosa ricorda dell’istituto?«La notte: univamo i letti e ci tenevamo per mano attraverso le sbarre di protezione. Prendevo la mano di mia sorella, toccavo la sua faccia e sentivo le lacrime. Ogni sera, una bambina diversa raccontava la sua storia. Due sorelle descrivevano lo stupro della madre che avevano sentito nella stanza accanto, da parte di un gruppo di uomini. Nei loro occhi c’era terrore e qualcos’altro. Disperazione. Le donne vengono brutalizzate due volte: prima dalla violenza, poi da un sistema che gli nega la giustizia e le costringe al silenzio. Oprah Winfrey ha detto che il trauma trascende le generazioni». Come ha capito che cosa era successo a sua madre?«Subito ho pensato che era successo qualcosa di grave se mi lasciavano in un istituto. Dal dolore sulla faccia di mio padre, poi, ho capito da sola e a otto anni qualcuno me lo ha detto». A 20 anni ha vinto una borsa di studio per fare l’università a Bologna. Che cosa ricorda del suo arrivo?«Mi imbarazza un po’... All’aeroporto, a Roma, ero stanca, sudata, spettinata, con una maglietta bianca e un paio di jeans. È passato un ragazzo, si è fermato, mi ha fatto l’occhiolino. Mi sono girata per guardare dietro di me, non potevo pensare che si rivolgesse a me. Nel mio Paese le belle erano altre, piacevano le bionde, più formose di me». Lei è diventata mamma durante quegli anni all’università.«A ventitré anni, come il padre di Miral (l’artista Davide Rivalta, ndr)». L’età di sua figlia, oggi. Se diventasse nonna?«No, no, no», ride. «Con Miral stiamo parlando dei suoi progetti, vuole fare la gallerista, non pensa a questo, lavora con suo papà, un uomo fantastico, il mio migliore amico». Invece a lei, studentessa, come andò?«Eravamo innamorati, e incoscienti. Ma è stata la più bella scelta, quella che mi ha cambiato la vita: anzi, quando ho avuto mia figlia ho iniziato davvero a vivere, lei è la mia coscienza morale ancora più sviluppata, fuori dal mio corpo». Ha consultato Miral sulla sua partecipazione a Sanremo?«Certo. Mi ha detto: fallo, assolutamente sì! È l’occasione per comunicare con un pubblico più ampio». Ricorda gli attacchi misogini subiti in Italia?«Certo. In America si viene licenziati se succedono cose simili. Con l’avvocato di Trump, Jonathan Turley, ho avuto sulla Cnn degli scontri feroci, gli ho dato del bugiardo molte volte. Continuava a dire che il suprematismo bianco non esisteva… Lui, impeccabile, finito il dibattito, mi ha stretto la mano: non condividiamo la stessa opinione ma lo scontro si ferma lì. In Italia dobbiamo ridefinire il linguaggio che usiamo per le donne: è vergognoso che in tv si possa definire “gnocca” una professionista o che in alcune trasmissioni italiane, anche importanti, ci sia la poltrona destinata alla “gnocca”». Anni fa o oggi?«Parlo di fatti che conosco, di adesso. È una battaglia che va combattuta anche dagli uomini. Per me è imprescindibile, non combatterla vorrebbe dire che non è cambiato niente da quando mia mamma si è suicidata. E lo devo a mia figlia».

LEGGI ANCHE

Sanremo 2020, il monologo di Rula Jebrea