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Le regole sono le radici della nostra convivenza. Perché alcune funzionano e altre no?

Le regole sono l’architrave della società civile, ma spesso vengono ignorate dai cittadini. La soluzione sta nella ricerca di equilibrio

di Vittorio Pelligra

(blvdone - stock.adobe.com)

11' di lettura

Fino al 2013, in Francia, alle donne era vietato vestire i pantaloni. A meno che non dovessero andare a cavallo o in bicicletta o che avessero presentato un certificato medico alla polizia per ottenere una deroga speciale, la gonna era l'unica alternativa possibile. Lo stabiliva un’ordinanza della prefettura di Parigi emessa nel novembre del 1800 e in vigore fino, appunto, al febbraio 2013.

Quando venne ufficialmente abolita, la legge, naturalmente, non veniva più rispettata da decenni, anche se in alcuni casi aveva contribuito a creare spiacevoli incidenti, come quando nel 1972, la giovane deputata Michèle Alliot-Marie venne trattenuta all’ingresso del Parlamento a causa del suo abbigliamento non consono: indossava un paio di pantaloni. Venne fatta passare solo dopo molte proteste, ma soprattutto quando minacciò di toglierseli quei pantaloni e di entrare in Parlamento in mutande.

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Perché alcune regole funzionano e altre no? 
Questa storia, oltre che gettare un po’ di ridicolo sui cugini d’oltralpe, ci dovrebbe far interrogare su un tema più profondo: perché certe regole vengono rispettate, alcune meno e altre, invece, vengono bellamente ignorate? Il tema è rilevante per chiunque si trovi nella condizione di dover regolare in qualche modo il comportamento di gruppi, dalla vita famigliare alle dinamiche organizzative e aziendali, fino alla dimensione nazionale e sovranazionale. Ma il tema è rilevante anche per tutti coloro che devono decidere se, come e quanto conformarsi a regole e norme.

Insomma, è un tema rilevante per tutti, perché le regole che ci diamo, in fondo, non sono altro che le radici dell’albero della nostra convivenza. Solo se le radici sono sane e robuste, allora le nostre comunità possono prosperare, e noi con loro. Le regole sono gli elementi costitutivi delle istituzioni e queste ultime sono gli strumenti che utilizziamo per organizzare e coordinare i comportamenti sociali in modo che questi possano concorrere nel modo più efficace al benessere collettivo. Sono le istituzioni a stabilire come suddividere i compiti nelle organizzazioni complesse, a governare e ad allineare una miriade di piani individuali in un’azione congiunta concertata ed efficace.

Le istituzioni che coordinano le nostre vite
Stati, mercati, tradizioni, codici giuridici e morali, ma anche il matrimonio, l’amicizia, le buone maniere, sono tutte istituzioni, cioè insiemi di regole, che contribuiscono a (co)ordinare le nostre esistenze e a facilitare l’azione congiunta, a volte di sole due persone, altre volte di milioni e milioni. Si capisce, dunque, perché possa essere rilevante chiedersi quando e per quale ragione alcune di queste regole vengano rispettate e quando e per quale ragione invece no; cosa rende alcune regole “effettive” e altre “non effettive”; perché, come sostiene qualche voce malevola, a Milano i semafori siano un obbligo, a Roma un suggerimento e a Napoli decorazioni.

Il primo punto da chiarire è che le regole e le istituzioni che le incorporano sono effettive se sono sostenute da incentivi e aspettative coerenti. Pensiamo alle norme del codice della strada e, in particolare, alla regola che prescrive la guida a destra. Questa regola funziona egregiamente nel coordinare il comportamento di milioni di automobilisti sia perché è nel loro interesse seguirla, sia perché ci si aspetta correttamente che tutti la seguiranno. Diventa importante seguirla proprio perché ci aspettiamo che gli altri la seguiranno.

Ci sono le aspettative che suggeriscono che anche gli altri automobilisti guideranno a destra e gli incentivi che ci dicono che se tutti gli altri guideranno a destra, allora, per evitare un incidente, anche noi faremmo meglio a guidare a destra. Non serve la minaccia di una multa per far fare a qualcuno ciò che è nel suo interesse fare. E infatti questa regola del codice della strada funzionerebbe anche se non ci fossero sanzioni formali a sostenerla. Dato che tutti hanno l’interesse ad evitare gli incidenti, sapere che gli altri guideranno a destra è sufficiente a convincermi a rispettare la regola di guidare a destra. Aspettative e incentivi.

Perché una norma funziona, e perché no
Le regole che funzionano, funzionano perché hanno questa caratteristica, sono equilibri del gioco della vita, direbbero i teorici dei giochi. Sono situazioni nelle quali, dopo che ognuno ha fatto la sua scelta - destra o sinistra – e dopo aver osservato le scelte di tutti gli altri, decide che la sua scelta è la migliore possibile. Si chiamano “equilibri” proprio perché in questi casi nessuno ha interesse a cambiare idea, a mettere in discussione il proprio comportamento, dato quello di tutti gli altri. Sono equilibri anche perché le aspettative sul comportamento in questi casi sono sempre corrette.

Un’istituzione efficace non è altro, dunque, che un insieme di regole che le persone sono motivate a seguire. Regole come queste non sono, in sé, migliori di altre. Potremmo, per esempio, come si fa in Gran Bretagna e Giappone, scegliere di guidare a sinistra, invece che a destra. L’importante è che tutti lo facciano contemporaneamente. Il 3 settembre 1967, per esempio, gli automobilisti svedesi, dalle quattro e quarantacinque del mattino, iniziarono a guidare a destra e non più a sinistra, come avevano fatto fini a quel momento. Le foto delle strade di Stoccolma, quel giorno, mostrano numerosi casi di disorientamento e qualche incidente, ma nel giro di poche ore, milioni di individui passarono da una regola ad un’altra, da un equilibrio ad un altro, in un esercizio di straordinaria coordinazione collettiva.

Non ci sono, nel grande gioco della vita, solo questi giochi di coordinazione “puri”, dove gli equilibri sono equivalenti; ci sono anche altri casi che prevedono la possibilità di assetti istituzionali differenti, alcuni migliori e altri peggiori. Questi sono i cosiddetti giochi di coordinazione “impuri”. Una classe di studenti svogliati e insegnanti demotivati, rappresenta un equilibrio nel quale le aspettative reciproche e gli incentivi portano ad un esito peggiore di quello che si otterrebbe nel caso di una classe popolata da studenti motivati e collaborativi e da insegnanti appassionati e stimolanti. Come trasformare la prima classe nella seconda? Come innescare processi di transizione che portino da un equilibrio inferiore ad uno superiore?

Il ruolo delle aspettative
Qui un ruolo fondamentale viene giocato dalle aspettative. A costo di semplificare un po’ possiamo affermare che, se gli studenti sanno che gli insegnanti si aspettano poco, giustificano e auto-giustificano lo scarso impegno e tollerano l’apatia, allora saranno indotti ad impegnarsi poco e anche quelli che invece vorrebbero dare di più, in un clima di lassismo generalizzato, finiranno, presto o tardi, per adattarsi; studenti e insegnati allo stesso modo.

Ma le aspettative possono anche essere differenti: gli insegnanti possono non accontentarsi del minimo sforzo, possono lanciare segnali inequivocabili, in questo senso, possono motivare gli studenti presentandogli sempre nuove sfide e dandogli gli strumenti per superarle. Gli studenti stessi possono creare un clima di co-opetizione (competizione e cooperazione) tra loro, nel quale l’impegno viene ricompensato con l’approvazione e il prestigio sociale e la pigrizia e il lassismo, invece, vengono stigmatizzati con biasimo dei più. Quest’insieme di aspettative porterà, con tutta probabilità, ad un equilibrio superiore, con soddisfazione di tutti. Spesso non si rispettano le regole solo perché abbiamo la sensazione che sia inutile, visto che sappiamo che nessun altro lo farà.

Il rompicapo dei giochi di cooperazione
Ci sono, poi, i casi più complicati, le situazioni più difficili, veri e propri rompicapi per i policy-makers: sono i cosiddetti giochi di cooperazione. Questi rappresentano tutte quelle situazioni nelle quali, proprio il sapere che gli altri rispetteranno le regole, farà scattare la spinta a non rispettarle. Se nessuno pagasse il biglietto del bus, il sistema fallirebbe e io non potrei più usufruire del trasporto pubblico. Ma se, invece, so che la maggior parte degli utenti pagheranno il biglietto, allora, proprio per questo, sarò tentato di non pagarlo: avrei comunque il servizio ma senza il costo del biglietto. Sarebbe certamente meglio trovarsi in uno scenario nel quale tutti i cittadini pagano le tasse, piuttosto che in uno nel quale nessuno le paga.

O poter contare sul fatto che blog e giornali non pubblichino e non rilancino notizie false e tendenziose, solo perché sono in tanti a fare così. O, ancora, sarebbe preferibile una situazione nella quale si sceglie di fare la raccolta differenziata, piuttosto che una nella quale nessuno la fa. Il problema è che, in genere, in queste circostanze lo scenario migliore - pagare le tasse, combattere le fake news, fare la raccolta differenziata – non è mai un equilibrio del gioco. I comportamenti effettivi saranno allora spinti lontano da tali esiti positivi, spesso, verso configurazioni peggiori: evasione, informazione non affidabile, inquinamento. La questione vera, in questi casi, diventa, quindi, non tanto quella di passare da un equilibrio ad un altro, quanto piuttosto quella di ristrutturare il gioco in modo che l’esito ottimale – fedeltà fiscale, notizie affidabili, riciclo dei rifiuti – diventino un equilibrio.

Aspettando il «Leviatano»
Per questo, in casi simili, occorrono interventi esterni che siano volti a modificare la struttura degli incentivi e quindi alla ristrutturazione del gioco stesso. Deve intervenire il Leviatano, un soggetto esterno dotato di potere coercitivo e sanzionatorio, perché solo attraverso le sanzioni possiamo cambiare la struttura degli incentivi e quindi il comportamento. Per questo, l’evasione, la disinformazione e l’inquinamento, sono comportamenti punibili e, in varie forme, puniti. Anche se non sempre questa strada è l’unica o la più efficace. Il costo effettivo della sanzione e la sua efficacia, infatti, dipende da due elementi distinti: l’effettivo ammontare della sanzione e la probabilità che, in caso di violazione, questa venga effettivamente scoperta e la sanzione effettivamente comminata.

L’effetto deterrente di una piccola multa certa è molto maggiore di quello di una grande sanzione che sappiamo altamente improbabile. Il problema dei giochi di cooperazione, la ristrutturazione, cioè, delle situazioni in modo da far emergere nuovi e migliori equilibri, può diventare molto complicato proprio a causa della difficoltà di accertare e sanzionare le violazioni. In questi casi l’effetto disincentivante delle sanzioni diventa praticamente nullo, il gioco non cambia e siamo costretti a tenerci i vecchi e inefficienti equilibri. C’è chi, un po’ paternalisticamente, è convinto che si possa uscire da questa impasse solo coltivando la virtù dei singoli cittadini. Se è vero che da una parte questo può aiutare, certamente non è una mossa risolutiva. Saremmo destinati ad un ben misero fallimento. Non bastano i generici appelli al senso civico o i progetti di potenziamento dell’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole.

Sono scorciatoie degne del più ingenuo e superficiale populismo. Occorre tenere a mente che nei giochi ci cooperazione, la tentazione all’opportunismo nasce proprio quando si ha la convinzione che gli altri rispetteranno le regole. Tanto maggiore è il numero di cittadini “virtuosi” tanto più forte sarà la tentazione della violazione. E’ un paradosso difficile da evitare. Ma, per fortuna, qualche via d’uscita c’è. Per esempio, meccanismi potenti, in questo senso, sono la pressione dei pari e il conformismo sociale.

Il potere benefico della «spinta dei pari»
Antanas Mokus è stato, tra il 1995 e il 2004, per due volte sindaco di Bogotà, in Colombia, e sotto la sua guida la città ha subito una rivoluzione urbanistica e sociale che l’ha trasformata, in pochi anni, da una città insicura, inquinata e corrotta, in una metropoli moderna e decisamente più vivibile. Uno dei pilastri del programma di cultura civica di Mokus è stato quello di «promuovere la capacità dei cittadini di incoraggiare gli altri cittadini ad un pacifico rispetto delle leggi» (“CoExistence as Harmonization of Law, Morality and Culture”, Prospects 32, 2002, pp. 19–37).

La pressione dei pari diventa valorizzazione reciproca degli sforzi dei singoli e attenzione collettiva verso i comportamenti opportunistici. Anche l’imitazione e il conformismo sono armi potenti. Invece che evidenziare il numero degli evasori, sarebbe più utile sottolineare l’enorme numero di cittadini onesti che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo. Se, invece che accendere i riflettori sui pochi trasgressori, dessimo risalto ai molti onesti, le violazioni sarebbero sensibilmente meno tollerate socialmente. Anche questo è il gioco delle aspettative. Se penso che tutti evadano, perché io non dovrei farlo? Ma se so che gli evasori e i trasgressori, in generale, sono pochi, allora la mia violazione diventa più costosa.

Sottolineare l’onestà dei tanti piuttosto che la disonestà dei pochi rende le regole ancora più normative, ne aumenta l’efficacia prescrittiva e, infine, la capacità di persuasione. Un ulteriore passo è quello nella direzione di rendere le sanzioni certe, perché automatiche. Per esempio, facendole auto-imporre direttamente dal trasgressore. Fare in modo che si passi da un senso di auto-giustificazione al senso di colpa, dopo aver trasgredito la norma, è un modo perché la sanzione diventi automatica e certa. Se passano messaggi come “chi evade ruba” e “chi inquina ruba il futuro ai propri figli”, il costo morale di certi comportamenti aumenta proprio perché aumenta il senso di colpa che questi, automaticamente, producono.

L’eliminazione del confine mio-nostro
Un terzo elemento ha a che fare con l’eliminazione del confine mio/nostro. Nel momento in cui la sfera pubblica viene percepita come costitutivamente separata da quella individuale – ciò che è comune non è di nessuno – allora la molla dell’interesse individuale non si applica e con essa si perde una sorgente motivazionale potente. Promuovere una prospettiva nella quale, invece, ciò che è comune è anche mio, aiuta a produrre un allineamento tra gli interessi individuali e quelli collettivi e quindi ad una maggiore fedeltà alle norme di coordinazione.

Se si vuole indurre i cittadini riluttanti a differenziare i rifiuti e a seguire le regole della raccolta porta-a-porta, per esempio, non si può ragionare solamente in termini di sanzioni. Non si può solo minacciare multe o installare telecamere nel tentativo di scongiurare la nascita di discariche abusive. Ci sarà sempre un luogo sufficientemente buio e appartato dove abbandonare i rifiuti. Non sempre la soluzione di ristrutturare il gioco attraverso gli incentivi materiali può funzionare. Quando si vogliono introdurre innovazioni che richiedono cambiamenti comportamentali importanti, la prima cosa da fare è mettere tutti nelle condizioni di poter rispettare le regole senza bisogno di sforzi eroici. Il passaggio da un sistema all’altro dovrebbe essere il più indolore possibile.

Il vantaggio di nuove regole
Occorre, poi, far comprendere la natura del vantaggio che, collettivamente, si può ottenere con le nuove regole: una città più pulita, bella e dignitosa, in tutti i suoi quartieri, centro e periferia. I nostri interessi sono anche i miei interessi. Infine, si dovrebbero sottolineare e rendere concreti anche gli eventuali vantaggi individuali che ogni cittadino potrebbe sperimentare. Per esempio, una sensibile riduzione della tassa sui rifiuti.

Perché i miei interessi sono anche i nostri interessi. In questo modo il nuovo scenario, quello nel quale tutti seguono le nuove regole, differenziando e conferendo in maniera corretta i rifiuti, ha maggiori probabilità di diventare un equilibrio e quindi un corso di azioni che ogni cittadino ha interesse a mettere in atto. Se anche solo uno di questi elementi dovesse mancare, allora il cambiamento sarà difficoltoso, problematico e, alla fine, destinato all’insuccesso.

Le regole che funzionano sono le regole che codificano equilibri del gioco della vita. Sono regole che favoriscono e coordinano gli interessi individuali verso un mutuo vantaggio che, senza regole, sarebbe complicato da ottenere. In fondo, e non solo evangelicamente, le leggi sono fatte per l’uomo e non l’uomo per le leggi. Se siamo in presenza di regole troppo complicate e costose da seguire la probabilità che esse vengano eluse e violate aumenta drasticamente. Una vera azione riformatrice non considera solo cambiamenti auspicabili, ma cambiamenti realisticamente auspicabili. Soprattutto cambiamenti che vengono percepiti, contemporaneamente, come interesse comune e dei singoli.

Le istituzioni e i comportamenti morali evolvono congiuntamente e, se è vero che buone istituzioni si basano su un ampio tessuto di virtù civili, è altrettanto vero che le stesse istituzioni, quando funzionano in maniera giusta ed efficiente, contribuiscono al rafforzamento e alla diffusione di tali virtù. Analogamente, inefficienze e ingiustizie pubbliche sono frutto, ma anche causa, di piccoli e grandi opportunismi e tendono a generare ingiustizie.

In questo snodo concettuale e in questa irriducibile ambivalenza sta la sfida della moderna progettazione istituzionale. Un’arte che ogni regolatore e policy-maker dovrebbe padroneggiare, affinché interessi materiali e sentimenti morali possano essere valorizzati insieme verso un obiettivo comune, invece che aizzati gli uno contro gli altri da norme contraddittorie e regole tanto dannose quanto ingiuste.

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