work-life balance

Gli aspetti «soft» di un trasferimento all’estero: primo problema, la famiglia

Quando si sposta un dipendente, tutto quello che ruota intorno alla persona viene spesso considerato in azienda solo un costo in più da sostenere

di Francesca Contardi *

(AFP)

3' di lettura

Da qualche mese mi sono trasferita negli Stati Uniti, per la precisione sulla costa Est. Il sogno di una vita... da ragazzini. L’America era la terra promessa, un Paese in cui anche solo passare le vacanze era un sogno proibito poiché i voli erano meno accessibili, le comunicazioni meno facili e la vita era davvero molto diversa da quella in Europa. Non esisteva il mercato globale. La prima volta che sono venuta negli Stati Uniti i PC portatili erano quasi delle chimere e a prezzi assolutamente proibitivi.

Ora, in un momento insospettabile, la nostra vita familiare ha dovuto fare i conti con un ulteriore trasloco. Non che non ne abbia già fatti prima. Chi come me è nato al Sud Italia sa, quasi fin dalle elementari, che molto probabilmente si dovrà trasferire per lavoro. E così, infatti, è stato. Andare da Milano agli USA, però, è un'altra storia. Quando ci si sposta da Napoli a Milano, nella peggiore delle ipotesi, in 10 ore di auto torni a casa. Stesso discorso, più o meno, quando ci si sposta a Parigi, a Londra o a Berlino.

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Con qualche ora di volo è possibile tornare. Si fa una vita da pendolare, ma è abbastanza gestibile. Conosco molte persone - amici, ma anche candidati - che hanno lasciato la famiglia a Napoli, Roma o Milano e si sono spostati in altre città e ogni settimana fanno i pendolari. Quasi fosse una cosa normale.

Quando invece si va oltre oceano, le cose si complicano notevolmente a livello di organizzazione di vita familiare. Innanzitutto la famiglia, in questi casi, diventa la tua zona di comfort primaria. Tornare a casa a Sidney, Shangai o New York e trovare la propria famiglia cambia non poco l’impatto di un cambiamento tanto radicale e, di conseguenza, anche il modo di affrontare la sfida di chi è stato trasferito.

Qualche anno fa mi avevano proposto di andare negli USA, ma il capo di allora cambiò idea quando seppe che mio marito, per i primi 6 mesi, non mi avrebbe seguito. In quel momento confesso che non ho capito, ma con l'esperienza di oggi invece vedo i vantaggi enormi dell’avere mantenuta la famiglia compatta. Eppure, quando si sposta un dipendente, tutto quello che ruota intorno alla persona viene spesso considerato dalle aziende solo un costo in più da dover affrontare. È vero, le famiglie hanno bisogno di spazi più grandi rispetto ai single e, se ci sono dei bambini, ci saranno da pagare delle scuole. I voli aerei per rientrare costano chiaramente di più.

Pochissime aziende valutano il costo indiretto che le famiglie devono sostenere. Lo sradicamento avviene per tutti con impatti diversi, più flessibili per i bambini, meno per gli adulti che, magari, si ritrovano a dover cercare una casa nuova in un posto che non conoscono, parlando in una lingua che non è la propria. Spesso ci si appoggia alla rete di persone che hanno già vissuto questa esperienza, imparando dai loro errori e dai loro successi. Nei primi mesi, poi, bisogna affrontare anche notevoli tensioni familiari. Nessuna azienda che io conosca, nello spostare un dipendente si è mai posta la domanda: «Che impatto potrebbe avere sulla sua famiglia e, di conseguenza, anche su di lui/lei?».

Di solito l’esperienza all'estero e qualche benefit in più vengono considerati sufficienti per convincere ad armarsi e a partire. Per chi non lo ha mai fatto prima, le possibilità di tensioni con i propri compagni di vita sono dietro l’angolo. E chi lo ha vissuto prima di me mi ha detto che o si sopravvive, magari facendosene una ragione, o si divorzia. E di storie così ne ho già sentite tante.

Quello che succede in questi casi è che il dipendente 9 volte su 10 chiede il rimpatrio. Una operazione scomoda e spesso non facile per le aziende stesse, con naturali rallentamenti necessari per poter reinserire la persona o eventualmente valutarne l’uscita. Assurdo per un dipendente così bravo, tanto da mandarlo all’estero a rappresentare il proprio brand, che per un moving mal gestito viene fatto uscire o viene costretto ad uscire perché sceglie di non sacrificare la propria famiglia.

Quindi, quando parliamo mercato globale, di internazionalizzazione e di talenti bisogna prendere in considerazione anche gli aspetti più soft che, se mal gestiti, rischiano di diventare una perdita invece che un investimento. Certo, spostare noi italiani è più difficile rispetto ad altri candidati, ma non è una missione impossibile.

* Managing Director di EasyHunters

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