23 ottobre 2016 - 23:20

Nba al via senza Bryant, Kobe:
«Mi sono chiesto: hai ancora voglia
di fare questa vita? E ho risposto no»

«Avrei potuto venire in Italia, ma non potevo accettare di essere Kobe al 60-70% delle possibilità. Se gioco è per dare il massimo. Uso le cose dark per trovare forza»

di Roberto De Ponti

(Reuters) (Reuters)
shadow

«Forse quando l’arbitro alzerà la prima palla a due della stagione avrò un momento di emozione, credo sia umano, ma poi tutto andrà come deve andare: i miei ex avversari in campo, io a fare altro nella vita».

Quel momento sta per arrivare. La Nba sta per inaugurare la stagione 1 d.K., dopo Kobe. E anche se i tifosi fanno fatica a immaginare una Lega senza il Mamba, da domani dovranno farsene una ragione: Kobe Bean Bryant è oggi un 38enne che guarda avanti, pensa a film, a libri, ad academy, a insegnare pallacanestro ai giovani. A giocare, sì, ma con gli amici. Dopo 19 anni di trionfi e uno passato salutando giocatori e tifosi, compagni e avversari, KB è un ex. «Mamba out», le sue due ultime parole su un parquet Nba.

Kobe, partiamo dalla fine. Il momento preciso in cui ha deciso «basta, mi ritiro».
«Mi sono svegliato una mattina, dolori alle spalle, alla schiena, dappertutto. Mi sono chiesto: Kobe, ma tu hai ancora voglia di tutto questo? E la risposta è stata semplice: no. Presa la decisione, tutto mi è stato chiaro: non potevo più stare in campo a certi livelli».

«Non potevo» o «non volevo»?
«Forse non volevo, che poi è la stessa cosa».

Poi però sono arrivati 60 punti nella partita d’addio... Non ha mai avuto, nemmeno per un istante, la voglia di dire «scusate stavo scherzando, il prossimo anno giocherò ancora»?
«Mai. La decisione, una volta presa, è presa. Indietro non si torna».

Quanto ha provato coach Krzyzewski a convincerla a chiudere la carriera a Rio disputando le sue ultime Olimpiadi con la canottiera Usa?
«In realtà molto poco. Mi ha gentilmente chiesto se la sua proposta poteva interessarmi, ho risposto che avevo chiuso la carriera con la divisa dei Lakers addosso. Ha capito».

Rimarranno i record. Quanto hanno contato, contano o conteranno per lei?
«Adesso poco. Forse quando ero più giovane ci stavo più attento, invecchiando mi sono reso conto di quanto poco siano importanti. Conta di più quello che trasmetti, quello che fai in campo. Quello che vinci».

Raccontano i suoi ex compagni di squadra reggiani che lei a 11 anni era sicuro di diventare un giocatore da Nba.
«Non sicuro, sicurissimo».

Da dove nasceva questa sicurezza?
«Vedevo i giocatori Nba nei video e pensavo: loro ci sono riusciti. E allora perché loro e non io? Che cos’hanno più di me? Lavorano ogni giorno? Anch’io lavoro ogni giorno per migliorarmi. Anche se la Nba non era così globalizzata e arrivarci partendo da Reggio Emilia non era la cosa più facile del mondo».

Reggio Emilia, l’Italia. La sua seconda patria.
«Tutto è cominciato qui... In queste stradine, su un campetto in piastrelle, nella scuola di fianco. Andavo avanti e indietro in bici, con il pallone sottobraccio, e sentivo il profumo, i sapori di questa terra, la cultura, la storia. L’architettura. Non riesco a immaginare un posto più lontano dalla Nba. Eppure in Nba ci sono arrivato».

Quanto ha contato la sua esperienza italiana nel farla diventare «Kobe Bryant la stella»?
«È stata fondamentale».

Anche se lei era ancora un bambino?
«Le faccio un esempio. A 11 anni ero il più alto della squadra, ma gli allenatori ci dicevano: se volete imparare a giocare a basket, dovete imparare a fare tutto. Nessuno ha mai pensato di farmi giocare da lungo perché ero alto. In America? Se sei alto ti dicono giochi da lungo, se sei piccolo ti fanno fare il play. Se sono diventato un giocatore completo, è perché sono cresciuto in Italia».

La sua fonte di ispirazione?
«Magic Johnson, il migliore. Poi Michael Jordan ha spostato i limiti più in là, ma Magic era il mio eroe. Ho consumato videocassette continuando a schiacciare i tasti play, stop e review per capire ogni suo movimento, ogni suo segreto».

Era convinto che sarebbe diventato anche il giocatore più forte del mondo?
«Non l’ho mai detto a nessuno ma sì, dentro di me ne ero convinto. Ero molto determinato anche a 11 anni».

La sua arma in più, che lei ha chiamato «Mamba Mentality», è stata l’ossessione. Che significa ossessione per lei?
«Fare quello che ti piace di più. Farlo al massimo. Farlo cercando di essere il migliore di tutti, sempre. E seguire tutte le strade lecite per diventarlo. Quando fai la cosa che ami di più, l’ossessione è naturale; se devi provare a farlo, allora cercati qualcos’altro».

Quando si è reso conto di avere un talento unico per il basket?
«Al secondo anno di Nba. Fu come un’illuminazione».

Che cosa accadde?
«Durante una pausa dico a un mio compagno: ora facciamo così, io prendo palla qui, tu ti sposti lì, il difensore farà questo, tu farai quest’altro, io mi muovo così, pà-pà-pà, e facciamo canestro. Il mio compagno mi ha guardato con gli occhi sgranati e mi ha risposto: ehhh?!? Allora ho ricominciato a spiegargli con calma quello che sarebbe accaduto, stupito che lui non capisse; lui mi ha riguardato e ha chiuso dicendo: boh, fai un po’ tu. Ho realizzato che vedevo il gioco molto più avanti degli altri».

E quell’azione poi si è sviluppata come l’aveva in mente lei?
«Naturalmente...».

Quanto dev’esserci in percentuale di talento e di lavoro in palestra in un giocatore?
«Dipende. Puoi avere poco talento ma lavorare molto in palestra: diventerai un buon giocatore, anche se non super. Puoi avere molto talento e poca propensione al lavoro, allora sarai un buon giocatore che non ha sfruttato tutti i suoi mezzi. E infine puoi avere talento e lavorare duro in palestra...».

...e a quel punto sei Kobe Bryant...
«Ma non solo».

L’eterno confronto con Michael Jordan l’ha infastidita?
«No. È sempre stato un idolo per me, mi ha insegnato moltissimo. Anche adesso ci sentiamo spesso. Posso dire che sono migliore di lui? No, non posso, sarebbe una mancanza di rispetto. Lui mi ha aiutato. Abbiamo avuto due carriere differenti, tutto qui».

Quanto è difficile essere Kobe?
«Non lo è. Basta essere come sono. Essere me stesso».

Non pesano gli obblighi extra basket cui è sottoposto? Gli impegni con gli sponsor, gli autografi, le interviste, l’impossibilità di camminare per strada senza essere avvicinato dai tifosi?
«Se mi pesassero non le farei. Faccio solo quello che mi sento di fare, alle cose che mi pesano dico no».

E quanto è difficile essere compagno di squadra di Kobe Bryant?
«Ah, difficilissimo. Da un mio compagno pretendo lo stesso impegno e la stessa ossessione che ci metto io».

Qual è il vero Kobe? Quello che fuori dal campo scherza, o quello che sul parquet ha uno sguardo che uccide?
«In campo libero tutte le tensioni che ho dentro. Litigo con mia sorella? Impassibile. Ho problemi personali? Faccio finta di nulla. Poi appena scendo in campo libero tutta questa aggressività, frustrazione, chiamatela come volete, e divento Kobe Bryant il giocatore. Io uso le cose dark, “scure”, per trovare forza, il tifo contrario, un avversario che difende sporco, le critiche ingiuste...».

È vero che verrà in Italia a insegnare pallacanestro?
«Questa è l’intenzione».

In molti speravano di vederla chiudere la sua carriera in Italia, nella sua Reggio Emilia, o magari a Milano.
«Sarebbe piaciuto anche a me, ci ho pensato spesso. Ma alla fine è andata così, il momento della decisione di smettere è arrivato mentre ancora vestivo la maglia dei Lakers. Ho deciso di chiudere».

Però una stagione in Europa, in Italia, non sarebbe impegnativa come una stagione Nba.
«Ma io non potrei mai accettare di essere Kobe Bryant al 60-70 per cento delle proprie possibilità. Se gioco è per dare il massimo, sempre. E io ho deciso che non voglio più».

Lei ha incontrato Francesco Totti, praticamente suo coetaneo, che a 40 anni sta giocando un’altra stagione nella Roma.
«Totti è un grandissimo. Credo che come me si sia posto quella domanda, hai ancora voglia di tutto questo, e si sia risposto di sì. Se quella è la risposta, allora fa benissimo a continuare».

E ora che cosa farà Kobe Bryant?
«Giocherò per le nuove generazioni. Proverò a insegnare il mio modo per raggiungere risultati, la mia mentalità, che tu sia un cestista, uno scrittore, un artista».

Quindi il Mamba non è ancora «out»...
«Oh no, sono più “in” che mai».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT