100 anni dalla nascita di Federico Fellini: ritratto del regista italiano più «venerato» del mondo

I film, il rapporto con le donne, la notorietà, Cinecittà. Ritratto di uomo che è riuscito a far sognare il mondo con i suoi stessi sogni
Federico Fellini
Gallery10 Immagini
Guarda la gallery

«Sono un gran bugiardo» era la bugia che diceva di sé per liberarsi di chi si ostinava a voler sapere di lui. Fino al giorno in cui, esausto di sognare, perso il filo, smarrita la trama, si stancò di mentire. Vuotato il sacco, restava il deserto. Quello peggiore, senza più allucinazioni da sparare su uno schermo. Le cose si ribellano. Non si lasciano più trasfigurare. Sono, ottusamente, quello che pretendono di essere. Game over. Fine dei giochi.

«Sono Federico Fellini, nato a Rimini, venuto a Roma, mi sono sposato e sono entrato a Cinecittà. Non c’è altro». Muore così Fellini, l’illusionista, lo stregone, prima ancora di morire davvero. Con la sintesi meno felliniana che si possa immaginare di una vita che è fantasmagoria pura. Invenzione dalla a alla zeta. Cento anni di beatitudine per lui che ha guardato il mondo e cento anni di gratitudine per noi che lo abbiamo guardato con i suoi occhi. Una gigantesca quinta su cui restano dipinte le incessanti polluzioni oniriche, diurne e notturne, di questo eterno ragazzo, che si ritrova un giorno vecchio di colpo, lui che nemmeno concepiva la possibilità d’invecchiare. Da sempre ostaggio dell’esuberanza dei suoi sensi, dell’urgenza delle sue visioni. Un immane sogno erotico, acceso a tempo pieno, questa è l’altra sintesi di Fellini.

Il mondo intero erotizzato da uno sguardo senza tregua, mai preso al laccio triviale delle apparenze spacciate per realtà. I fiori erano l’abisso che lo separava da Visconti. L’altro da lui. Sprezzante l’uno, quanto empatico l’altro. Luchino, che si schifava alla sola idea di mettere piede in un set o in una scena dove i fiori non fossero sfacciatamente veri, Federico che li pretendeva sfacciatamente finti, peggio che finti, inverosimili, grotteschi, sottratti alla miseria effimera del ciclo vitale. I fiori come le lucciole e come tutto il resto (mi raccontava Enrico Lucherini di quella volta a piazza del Popolo che i due s’incrociarono in pieno giorno nelle rispettive auto e, fingendo di non vederlo, Fellini ingiunse all’amico al volante: «chiudi il finestrino, Visconti mi sputa dentro»). I due si detestavano artisticamente e lo si capiva soprattutto quando fingevano di elogiarsi in pubblico. Fellini ha erotizzato tutto, l’animato e l’inanimato, i volti, le voci e le cose, i nasi, le bocche, i profili e le tette. Ha erotizzato il rumore del vento e le bucce di patate, l’odore della prima donna che lo ha stretto al seno senza essere sua madre. I tremori mistici e carnali sotto le sottane di preti e donne. LEGGI ANCHE

Andrea Guerra: «Mio padre Tonino e Federico Fellini: amici per sempre»

Tutto il trovarobato che, dopo cento anni, insiste, affolla musei e magazzini, i relitti del suo cinema che affiorano qua e là, le maschere, le statue, la cartapesta, il bronzo, il ferro, i telai delle navi stravolte come mostri marini, le musiche di Rota, gli amici, gli attori, le attrici, tutte le comparse e tutti gli scomparsi, quasi tutti, seppelliti dentro l’unico, sterminato, geniale cimitero, il circo di Federico. Vitelloni inclusi, tutti, a cominciare da Albertone, già memorabile sceicco, bianco e nero, mai più così grande. Ovunque Marcello, il suo compagno di giochi preferito (se devo sceglierne uno, quello travestito da Mandrake), Anita, Nino, Tonino, Titta, Magali alias Gradisca, Antonietta, la tabaccaia di Amarcord, Maddalena, Cesare, tanti altri. E poi Giulietta. All’entrata del tempio. Non ce l’ha fatta Giulietta Masina, «la sua piccola fata», quel giorno a spingersi fino lì, la camera mortuaria nei sotterranei del Policlinico Umberto a Roma, per dargli l’ultima carezza. Insostenibile la bara che si chiude definitiva sul volto di Federico, accecato per l’eternità, e sul suo grande corpo offeso. Così com’erano enormi e generosi e i corpi dei registi di allora, Fellini, De Sica, Leone, Blasetti, Tinto Brass, Bolognini, Petri, Scola, lo stesso Visconti, imponenti alla vista anche quando non nelle dimensioni.

100 anni dalla nascita di Federico Fellini: 20 capolavori influenzati da Fefè
Gallery28 Immagini
Guarda la gallery

Ebbe la delicatezza, Federico, di morire il giorno dopo i cinquant’anni di vita con Giulietta. Quando lei s’invaghì di uno sconosciuto caricaturista che scriveva gag per Aldo Fabrizi. Gli amici, a cominciare da Tonino Guerra, lo chiamavano Gandhi per la sua magrezza. «Un fachiro dagli occhi profondi, indagatori». Lei, a sua volta, ebbe la delicatezza di morire cinque mesi dopo di lui, con la scusa di un tumore ai polmoni. E adesso per favore, Giulietta, smetti di piangere…«Please, stop crying», che è anche un verso di Bob Dylan, le disse Federico quella sera dal palco di Hollywood alla consegna del suo quinto Oscar. Da allora e per più di un anno, Giulietta non ha più smesso di piangere. Riuscì a trascinarsi fino alla camera ardente di Cinecittà, l’ultimo set, dopo aver preteso che non ci fossero tracce di lutto e di nero. Solo un piccolo inginocchiatoio per lei. Lei genuflessa, a mani giunte, davanti a lui. Lui che si era da sempre genuflesso davanti alle sue donne. Tutte. Cinque mesi dopo, Giulietta morì di crepacuore. Cardiomiopatia da stress. Sindrome di Takotsubo. Il cuore diventa un palloncino, come il vaso (tsubo) che usano giapponesi per raccogliere i polipi, in questo caso il dolore che, quando esagera, crepa il cuore. La tromba di Mauro Maur suonò al funerale di Giulietta la stessa musica che aveva suonato a quello di Federico, La strada. La sua Giulietta piccola e spiritata, l’esatto contrario delle donnone opulente che Federico fantasticava vizioso e spaventato. Meglio se bionde, ma bene anche se more, purché straripanti di seno e di forme («Gli era presa una passione per l’Angela Cavagna vestita da infermiera di Drive In», mi raccontò Antonio Ricci). Non c’era distinzione in lui, tra realtà e finzione. Tutto era trasfigurazione. Federico deformava il mondo, come Mago Merlino deformava i metalli. La sua Giulietta era trasfigurazione.

Instagram content

This content can also be viewed on the site it originates from.

Chiunque volesse stare al suo fianco sapeva il prezzo da pagare: rassegnarsi a diventare quello che lui vedeva. Subire la dolce violenza del suo amore distorsivo. I ricordi stessi erano trasfigurazioni nella sua testa morbosa. Che fossero il mare di Rimini o il Grand Hotel, ridisegnato come un harem d’infantile lussuria. La cartapesta reinventava la natura. Donne come animali mitologici, clown e padri della chiesa che filtravano come spettri di un sottosuolo che cessava di essere sinistro nel momento in cui diventava cinema. L’occhio di Fellini era il ragno che irretisce le sue vittime, a partire dalla voce che tuonava morbida ma inesorabile al megafono. Tutto e tutti finivano nella sua tela e ci finivano senza timore, facevano la fila per finirci, incantati, rapiti, come i bambini del pifferaio magico di Hamelin. Lui stesso bambino. La prepotenza di Federico era la seduzione manipolatoria e perversa dell’onnipotenza infantile. La stessa di Quentin Tarantino. Dai suoi attori sapeva cavare tutto e in tutti i modi possibili, delicati, persuasivi o furenti. E tutti, famigliari, donne e amici, diventavano prima o poi attori della sua vita. Fellini era un ladro di anime che sapeva riconoscere i ladri di anime. Ammirava il talento stregonesco di Alighiero Noschese, l’amico che lo imitava, un mucchietto d’ossa appeso a un testone sproporzionato che un giorno si fece esplodere con una Smith e Wesson calibro 38, davanti alla statua della Madonna, esattamente come esplodeva il cappello di Fellini a ogni colpo di genio, in una delle sue più ispirate parodie. Giulietta si rassegnò, qualche volta a malincuore, a finire in quella tela, a diventare quella che Federico vedeva e voleva, il folletto malinconico e surreale, dal candore inattaccabile. A diventare Gelsomina e Cabiria. Lei, come tutte. La «favorita» dell’harem, anche quando Federico sbandava di brutto, la «piccola fata» che compensava quelle come Anita, la Ekberg, «…donna di una bellezza sovrumana. Non fatemela incontrare mai…». LEGGI ANCHE

100 anni dalla nascita di Federico Fellini: 20 capolavori influenzati da Fefè

Donne da cui si sentiva irresistibilmente attratto e minacciato, rispetto alle quali Giulietta era il rifugio rassicurante in cui desiderare non sarebbe stato rischiare. Fellini era un uomo dall’insaziabile curiosità, ma non amava il rischio. Non gli piaceva viaggiare. Preferiva intrattenersi con i suoi vizi e le sue curiosità nella zona protetta della sua mente e del suo cinema. Era un uomo fragile lontano dal set. Per un periodo si appassionò alla magia. Si lasciò convincere da Andrea De Carlo, l’amico scrittore, ad andare nello Yucatan a incontrare Castaneda per un progetto cinematografico. «Ma si mostro intimorito da lui e rinunciò a fare il film. Si sentiva sicuro solo nei suoi studi a Cinecittà». Mi raccontava Carlo Verdone che Fellini dormiva due ore a notte e smaniava dalla voglia di girare per la città tra puttane e malavitosi fino all’alba, ma lo faceva solo a bordo delle Pantere della polizia. E, se non era Anita, era Sandra. La Milo. Altra donna mitologica, altra femmina da svenimento. Diciassette anni insieme. Donne vere o inventate? Tutte inventate e dunque vere. Inclusa la Saraghina di Otto e mezzo, il puttanone monumentale che inceneriva gli uomini con lo sguardo e oscurava il cielo con il suo culo.

Il Fellini dalla parte delle donne. Di uno che si è sempre dichiarato «arreso alle donne». Le spiava, le pedinava, le interrogava, le corteggiava, le amava. Una volta puntò una sconosciuta che teneva in mano una sporta di arance. Dopo averla pedinata a lungo, le chiese un’arancia. Finirono a letto. Tutto il cinema di Fellini è un atto di devozione alla donna. Le ha raccontate a tempo pieno, da dentro il loro grembo, le loro fessure, senza mai capirci un granché, nemmeno poi così smanioso di capire («La donna: solo il diavolo sa cos’è. Io non ci ho capito niente», Fiodor Dostoevskij). Mito, mistero, diversità, luce e buio. Ha trovato nell’alter ego Marcello la faccia perfetta per raccontare la sua straniata sottomissione alla città delle donne. Dietro il feretro dei due c’erano a lutto non si sa quante mogli, compagne e amanti. Andavano di notte, Federico e Marcello, in segreto, nella pineta di Ostia, Isabella Biagini al volante, loro due dietro, dalle “mignotte” di allora a carpire storie per i loro film. «Mi passavano i soldi, ventimila, trenta, cinquanta, e io li giravo dal finestrino alle poveracce per convincerle a farsi intervistare. Queste, al freddo, il focherello, e lui, Federico, amabile, che gli faceva un sacco di domande…”Ma tu provi qualcosa, quando fai l’amore?”. “Che vole che provamo dotto’… Noi allargamo le cosce, cercamo de movese pe’ falli veni’ prima…Ce capitano certi che puzzano come cadaveri”… mi raccontava Isabella. Federico andava spesso a trovarla. “Mi telefonava. “Sto arrivando, Isabellina”. “Che mangi oggi Federico?”. “Due uova fritte e un’insalata”. Come sempre. Io gli cucinavo le uova e lui mi aspettava seduto sul divano. Gli piaceva stare a sentire i miei racconti strampalati. Anche per delle ore. Lo facevano stare bene. Mi metteva il braccio sulla spalla e mi stringeva. Voleva sapere tutto di me». “Un’ape che cercava il nettare ovunque”, lo racconta Sandra Milo, una delle poche sopravvissute. Fu Ennio Flaiano a presentargliela, una sera d’estate, a Fregene. Donna di raffinata intelligenza, Sandra è stata una delle poche a non lasciarsi reinventare da Fellini. Era stata già lei a reinventare se stessa, la Sandrocchia bella e svampita e a imporla a Federico, “…perché si teme l’intelligenza, non la bellezza, e una donna bella se non ha pensiero è più accettata”. Sandra racconta di un amore sconfinato. Racconta che avrebbe voluto essere un albero con tanti rami per abbracciare l’uomo che desiderava. Un amore come una favola, senza progetto, senza promesse, fatto di solo presente. «Per diciassette anni è stata una festa meravigliosa dei sensi, fuori da ogni assillo quotidiano, l’affitto, il telefono, i conti da pagare. Quando andavo da lui, nel suo appartamento, non riuscivo a prendere l’ascensore. Non ce la facevo ad aspettare. Dovevo salire di corsa. Arrivavo e la porta già era aperta e lui lì, emozionato come me, le gambe che ci tremavano. Passavamo le ore a letto. Lui mi raccontava le sue avventure amorose, io le mie. Amanti e complici insieme...». Il Fellini mai udito prima. Arreso alle donne, sì, ma mai così fisico, sensuale, carnale.

Amato in Italia, ma più venerato all’estero. «Beati voi che avete avuto Fellini», diceva Ingmar Bergman. Donald Sutherland, un caratteraccio, si lasciò da lui docilmente maltrattare e quasi torturare in Casanova, per quanto si percepiva fortunato ed estasiato di essere lì, in quel set, al guinzaglio del genio. Alla fine dell’ultimo ciak, Federico lo abbracciò e pianse sulla sua spalla, invaso da un senso di gratitudine profonda. Ognuno aveva il suo motivo per amare Fellini. Francois Truffaut si emozionava per come riusciva a dominare e a organizzare davanti alla macchina da presa il caos dei suoi set, la cura ossessiva, artigianale dei dettagli. Cinema onirico? Visionario? Masturbatorio? Realismo magico? Autoritratti ossessivi in forma fantastica? Si sono sbizzarriti in tanti. Fellini è stato un grande mare dove c’era da pescare per tutti. Se la vita è un’illusione ottica, siano tutti una folla di visionari e il cinema di Fellini è allora la vita stessa, raccontata da un bambino spudorato. Se si parla di «divine invasioni», la divaricazione è casomai tra incubo e consolazione. Tra la dannazione dell’arte e il suo potere salvifico. Penso a quell’altro genio visionario di Philip Dick. Nel suo caso, le donne non gli sono state amiche e scrivere non lo ha aiutato più di tanto. Le sue ossessioni lo hanno mangiato vivo. Non hanno trovato via di fuga, grande mari, grandi schermi, tributi stordenti e letti generosi. All’opposto di Fellini, che ha reificato l’incubo in un gigantesco, voluttuoso spettacolo, di cui lui era parte integrante, un clown del circo, una maschera del caravanserraglio, stregone e stregato allo stesso tempo. Di un gioco, il fare cinema, che era il suo recinto di protezione, il suo modo di restare nell’infanzia. Lui che un adulto non l’ha mai conosciuto, non credeva nemmeno esistessero, gli adulti, fino al giorno in cui non ne ha visto uno allo specchio. Aveva smesso già da tempo di capire dove stesse andando il mondo. La sua morte somigliò al suo mondo, finché era stato suo. Non meno grottesca e assurda. Morì come Sofocle. Soffocato da un’ovolina invece che da un acino d’uva. Il genio ucciso da un frammento di mozzarella che gli aveva ostruito la trachea. C’è qualcosa che può testimoniare meglio l’assurdità e lo scandalo della vita? L’ennesimo ictus, quattordici giorni di terapia intensiva e la parola fine. Quel giorno un freddo cane. Per una volta, lascio da parte Nino Rota e prendo la musica di un altro visionario, Vinicio Capossela: «…E ancora proteggi la grazia del mio cuore, adesso e per quando tornerà l’incanto…».

LEGGI ANCHE

Andrea Guerra: «Mio padre Tonino e Federico Fellini: amici per sempre»

LEGGI ANCHE

100 anni dalla nascita di Federico Fellini: 20 capolavori influenzati da Fefè