La paura di guerre in Libia e in Iran (o la speranza, dal punto di vista degli speculatori) fa crescere i prezzi del petrolio, delle materie prime e dell’oro. E secondo gli analisti dell’agenzia Moody’s «un conflitto duraturo rischio di provocare ampi choc economici e finanziari a livello globale», non solo mettendo in forse i rifornimenti energetici e facendone schizzare i costi all’insù, ma anche colpendo di riflesso altri settori, come ad esempio quelli del turismo e del trasporto aereo. Senza contare la finanza: «Un aumento dell’avversione al rischio - osserva Moody’s - sarebbe negativo per gli emittenti di titoli», perché diventerebbero più difficili i collocamenti azionari, e quelli di bond si farebbero più costosi; e se nel mondo le imprese hanno più difficoltà a finanziarsi, la crescita globale rallenta.

In realtà, per quanto riguarda (in particolare) il rincaro del petrolio, è da verificare che l’attuale tendenza al rialzo si consolidi: è vero che ieri il Wti americano ha fatto +0,35% a 63,27 dollari al barile e il Brent europeo +0,50% a 68,93, ma per molti anni i prezzi dell’energia sono rimasti bassi e indifferenti ai massacri in Iraq e in Libia (oltre che alla guerra in Ucraina, terra di transito del gas russo). D’altra parte, stavolta c’è la percezione che i rischi siano maggiori: se si combatte nel Golfo Persico fra americani e iraniani non viene coinvolto solo il petrolio dell’Iran, ma possono essere bloccate anche l’estrazione e l’importazione di tutti gli altri produttori locali: Iraq, Kuwait, Qatar, Emirati e Arabia Saudita. Nel passato recente lo «shale oil», il petrolio di scisto americano, saturava il mercato globale, ma se le cose si mettono al peggio stavolta lo shale oil potrebbe non bastare.

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Per le materie prime non energetiche il discorso è più complesso. Di regola, le guerre ostacolano i commerci internazionali, e questo potrebbe giustificare l’accaparramento preventivo di materie prime, per giustificata prudenza o per speculazione; però il Golfo Persico non produce materie prime importanti a parte petrolio e gas, né tali prodotti transitano per quelle acque; quindi non si vedono ragioni serie per far temere nel mondo una carenza di ferro, alluminio, rame eccetera; anzi, se le guerre in Medio Oriente provocassero un rallentamento dell’economia globale, la domanda di materie prime calerebbe.

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Ci sono però eccezioni, cioè quei metalli che hanno la duplice funzione di materie prime industriali e di beni rifugio, cioè l’oro, l’argento, il platino e il palladio. E infatti qui le pressioni al rialzo si avvertono. A Londra (mercato che fa da riferimento in tutta Europa) il palladio ha toccato i 1977 dollari l’oncia, record storico assoluto. Il platino ha superato i 1000 dollari per oncia. L’argento è cresciuto a 18,48 dollari l’oncia. E l’oro ha rivisto nel finale i massimi da aprile 2013 a 1573 dollari l’oncia (ma con uno spunto a 1588,13). La spiegazione è facile. Nel mondo, parecchi indici azionari (anche se non quelli italiani) sono ai massimi storici, e adesso il rischio di una guerra nel Golfo e di rallentamento o di crisi dell’economia globale rende più probabile un calo di quegli indici, anziché una loro crescita ulteriore (ieri le principali piazze finanziarie europee hanno chiuso in rosso). D’altra parte, se un investitore prova a rivolgersi alle obbligazioni, scopre che quelle di nuova emissione rendono poco o offrono addirittura rendimenti negativi. Perciò avrà la tentazione di parcheggiare una parte significativa dei suoi soldi nell’oro.

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