27 dicembre 2019 - 12:03

Smartphone, libri, film, momenti Cosa resterà di questi Anni Dieci?

Una lista d’autrice che separa ciò che è essenziale da ciò che non lo è stato. Un decennio che si chiude tra abitudini da cambiare, illuminazioni, domande e risposte

di Nadia Terranova

Smartphone, libri, film, momenti Cosa resterà di questi Anni Dieci?
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Una nave carica di rifugiati siriani alla deriva al largo del Mar Egeo, traTurchia e Grecia, dopo un guasto al motore avvenuto davanti all’isola di Kos. È l’11 agosto 2015. L’immigrazione e i morti nel Mediterraneo sono state due questioni cruciali nel decennio che si chiude (Foto Yannis Behrakis Reuters)

Ogni volta che c’è da fare una lista, vorrei sdraiarmi a letto e invocare vicino a me la mamma di Wendy, Michal e John in Peter Pan, il capolavoro di James Matthew Barrie, quella dolce signora Darling che dopo aver messo a dormire i bambini guardava dentro le loro teste e ne riassettava i pensieri, spingendo in fondo i meno importanti per far restare e brillare solo quelli talmente nobili da poter passare la nottata. Così, mentre mi accingo a scegliere cosa ci porteremo dietro dal decennio che lasceremo, mi sentirei più forte se la signora Darling mi aiutasse a non lasciar scivolare via l’essenziale, mi aggiustasse il senno per distinguere ciò che è stato importante per me da ciò che lo è stato per tutti, mi spolverasse la memoria per rimettere a lustro il momento che negli scorsi dieci anni mi ha cambiata per davvero, ricordandomi il libro, il film, la canzone che con le lacrime agli occhi ho giurato di amare per sempre e poi ho dimenticato. Rispetto alle testoline di inizio Novecento, la signora Darling troverebbe oggi, nelle nostre, un intoppo di non poco conto: buona parte delle mie facoltà mnemoniche, un tempo proverbiali, sono state senz’altro danneggiate dalla diffusione dell’oggetto che, più degli altri, riassume i cambiamenti del decennio trascorso, ovvero lo smartphone. Chissà che faccia farebbe lei davanti a un simile cortocircuito, e che posto darebbe a quell’oggetto magico, se lo metterebbe tra ciò che per forza dobbiamo tenere o tra gli oggetti che faremmo meglio a lasciare andare.

2013, Lo storico incontro tra i due papi Benedetto XVI e Francesco (foto Reuters) 2013, Lo storico incontro tra i due papi Benedetto XVI e Francesco (foto Reuters)

Lo smartphone

Ci piaccia o no, è lui il metro per misurare il cambiamento dei nostri consumi culturali, del nostro modo di vivere le relazioni, i tradimenti, le amicizie, la fruizione di notizie, la velocità e la densità dei tempi di reazione; se all’inizio del 2010 avevamo in tasca una scatolina che usavamo soprattutto per telefonare e scambiarci messaggi, all’inizio del 2020 siamo attaccati a quella stessa scatolina per leggere libri e giornali (e perfino per scriverli), spiare gli sconosciuti oppure litigarci, mandare fotografie in diretta e guardare fotografie in diretta, registrare video e guardare video, guardare film e a volte registrare pezzi di film, ascoltare musica e registrare la nostra voce, annotare appunti, cercare e scrivere recensioni di serie, dischi, romanzi, ristoranti, alberghi, compagnie aeree. Quella scatolina magica ha potenzialità pressoché infinite di accrescimento culturale e personale, ma noi la sfruttiamo per fare sempre le stesse cose, per reiterare abitudini: la signora Darling, un personaggio immaginario di inizio Novecento, di questo sorriderebbe e di certo anch’io, se nel 2010 mi avessero detto che avrei chiuso il decennio tenendo fra le mani la scatolina delle possibilità, avrei pensato a tutte le porte che si aprivano e non alle saracinesche che si chiudevano. No, non avrei immaginato cinema trasformati in sale da gioco o in centri massaggi né storiche librerie di quartiere arrabattarsi per sopravvivere, non avrei pensato alla trasformazione del dibattito pubblico nel giorno della marmotta di una perpetua gogna social, né tantomeno avrei sospettato che, avendo la possibilità di leggere in qualsiasi momento ogni tipo di articolo, molti di noi avrebbero cominciato a leggere soltanto i titoli. E, peggio ancora, a commentarli senza averli neppure letti.

2018, La 15 enne Greta Thunberg protesta davanti al parlamento di Stoccolma contro il cambiamento climatico (Foto Reuters) 2018, La 15 enne Greta Thunberg protesta davanti al parlamento di Stoccolma contro il cambiamento climatico (Foto Reuters)

Libri e film

Forse è per questo motivo che il primo romanzo rivoluzionario che mi viene in mente è Eccomi di Jonathan Safran Foer; era il 2016, avevamo appena girato la boa di metà decennio, e uno scrittore dava, in diretta, la più completa risposta alla domanda su ciò che stava accadendo: in che modo in letteratura poteva entrare lo smartphone che trasformava dall’interno le nostre vite? Eccomi non ignora la questione né la argina tematizzandola, piuttosto la trasforma in un detonatore narrativo attraverso l’esplosione di un matrimonio e la crisi impietosa del protagonista. Ricordare quello che ho provato allora, la sorpresa e l’ammirazione con cui ho letto quel romanzo, fa invece da detonatore a me: la signora Darling dev’essersi allontanata un attimo oppure deve avere fatto benissimo il suo lavoro, perché la mia corsa verso la mezzanotte dell’ultimo trentuno dicembre del decennio accelera all’impazzata, adesso i ricordi sono ovunque nella stanza, adesso arrivano i molti “quando” che hanno capovolto il mondo, perlomeno il mio. Per esempio: quando ho scoperto che un libro sul tennis non parlava di tennis ma di come sopravvivere al proprio talento, alla propria vacuità e alla propria vocazione all’abisso ( Open, di André Agassi, Einaudi 2011). Quando sono andata a vedere un film sulla bulimia sessuale e sono uscita dal cinema perseguitata dalla certezza che raccontasse quello che in apparenza non raccontava, ovvero il “brutto posto” dal quale venivano il protagonista e la sorella - che poi è l’infanzia, non solo la loro ma quella di tutti (era Shame, di Steve McQueen, 2011). Quando una scrittrice di racconti ha vinto il premio Nobel per la letteratura (Alice Munro, nel 2013), e quando sono stati pubblicati i racconti di un’altra scrittrice che sapeva descrivere un universo dentro una lavanderia, e dentro quell’universo e quella lavanderia sapeva mettere insieme grazia e debolezza ( La donna che scriveva racconti, di Lucia Berlin, Bollati Boringhieri 2016). Quando è stato pubblicato il romanzo di uno scrittore che raccontava una vita anonima, piatta, di chiunque, e alla fine di quella vita mi sono ritrovata a singhiozzare ( Stoner, di John Edward Williams, Fazi 2012), e quando sono stati pubblicati i libri di una scrittrice che raccontava la sua esperienza personale trasformandola in un’esperienza letteraria e politica collettiva (Annie Ernaux, tradotta dall’Orma a partire dal 2014). Quando un film irriverente e un po’ folle mi ha raccontato che Dio aveva una figlia femmina e le sue vicende potevano essere molto più interessanti di quelle del padre e del fratello Gesù ( Dio esiste e vive a Bruxelles, 2015); quando un altro film irriverente e un po’ folle mi ha raccontato la follia attraverso due personaggi femminili irresistibili ( La pazza gioia, 2016) e ho voluto rivederlo tre volte di fila. Quando è uscito Lacci, di Domenico Starnone, (Einaudi 2014) e l’ho trovato la cosa più perfetta che avessi mai letto... Ecco, adesso vorrei che tornasse la signora Darling e mettesse ordine in questo sovraffollamento, rivelandomi se davvero questi sono i libri e i film più importanti del decennio, anche solo del “mio” decennio, o se me ne stanno scappando troppi altri. Ma il palcoscenico è di chi se lo prende, e su quel palco ci sono saliti loro per primi, quindi: fidiamoci.

Persone e abitudini

Dico “salire” e penso a chi scende, a chi ha detto addio: Robin Williams, Toni Morrison, Philip Roth, Amy Winehouse, Dolores O’Riordan, Umberto Eco, Harold Bloom, Philip Seymour Hoffman, Alessandro Leogrande. Penso a Stefano Cucchi che è morto alla fine del 2009 e la cui storia ha attraversato tutti i dieci anni successivi, ogni volta speravamo che finisse ma non finiva mai; penso a Diaz, il film di Daniele Vicari che è del 2012 ma racconta il 2001 e forse bisognerà vederlo ancora nel 2021, perché i conti con quella storia non sono chiusi, i conti con certe storie non si chiudono mai, i confini dei decenni sono finzioni che servono a ordinare pensieri e ricordi in assenza di una signora Darling che lo faccia al posto nostro, confini che arginano porzioni di tempo ricordandoci di anno in anno chi e cosa abbiamo perso ogni volta che abbiamo perso qualcuno. A volte perdiamo un ruolo, e quell’assenza ci tormenta. Quando, a metà decennio, è morta la mia ultima nonna sono diventata grande per davvero: si resta figli per sempre, anche dopo la morte dei genitori, ma se non sei più la nipote di nessuno sei ancora una nipote? È questo, credo, il segreto dentro il bilancio sbilenco e sgangherato che si può trarre fingendo che il tempo sia una linea sulla quale accadono fatti che possiamo ordinare, e ordinando ci illudiamo di governarli: tenere strette anche le possibilità che non abbiamo raccolto e perfino quelle che non abbiamo avuto, le vite parallele nate il giorno in cui a un bivio ne abbiamo scartata una. Non si tratta di rimpianti, ma della sostanza invisibile delle nostre giornate, fatte anche di ciò che perdiamo, di ciò che non siamo. Allo stesso tempo, il segreto è tenere insieme quello che c’è: di questo decennio vorrei ricordare uno a uno i baci che ho dato, le volte che ho riso e alcune delle volte che ho pianto, le orecchie diventate rosse di vergogna e i piedi blu dal freddo, la pelle screpolata per la tramontana, i capelli salati dopo una nuotata. Dieci anni sono migliaia di giorni, decine di migliaia di ore, altro che linea del tempo, è un tempo espanso e sprigionante; vorrei saper contare quante volte sono tornata a casa in motorino prendendo troppo freddo o troppo caldo, ho cantato una canzone e poi ho smesso perché ero troppo stonata, ho pensato di comprare qualcosa e non l’ho fatto perché era troppo cara o non ne avevo davvero bisogno, e poi ci ho ripensato e me ne sono pentita, oppure ci ho ripensato e non riuscivo a ricordare cosa fosse o perché mi servisse. Chissà quanti battiti di ciglia, in dieci anni, e quante ripetizioni dello stesso gesto: aprire la borsa, girare le chiavi di casa, asciugare le mani, mettersele in tasca, cercare gli occhiali, buttare una penna che non scrive più. Siamo fatti di abitudini, più che di epica. Però, qualche volta, siamo fatti di illuminazioni. A un certo punto, durante questo decennio, sono stata per la prima volta nel continente americano, e poi ci sono tornata per tre volte, a nord e a sud. Santiago del Cile, L’Avana e New York hanno ben poco in comune, ma gli spazi che le città hanno rubato alla natura circostante conservano un uguale mistero che attiene alle proporzioni e alla sconfinatezza. La prima differenza tra l’America e l’Europa l’ha sentita il mio corpo, nei movimenti e in una indefinita percezione di spostamento dell’aria: in tutti e tre quei viaggi mi sono detta che la mia inestirpabile claustrofobia era geneticamente legata al fatto che fossi nata e cresciuta nel vecchio continente, dove la maggior parte degli alberi, delle rocce, dei palazzi e delle spiagge è molto più piccola e inevitabilmente schiacciante. È un pensiero che non ha corrispondenza con la medicina né con la psicologia, eppure tutte e tre le volte in cui l’ho fatto non ho avuto il minimo dubbio che fosse vero, vero per me. Ogni volta che sono tornata a casa ho riassestato la mia claustrofobia eurocentrica, e poi l’ho dimenticata. Dev’essere colpa della distrazione della signora Darling o del suo eccesso di zelo nell’aiutarmi a fare una lista se adesso quel pensiero è uscito fuori, perché a fare ordine nei ricordi si cercano le prime volte, e non è facile trovare prime volte dopo l’infanzia o l’adolescenza, ovvero l’età in cui ci si innamora per la prima volta, si soffre per la prima volta, ci si ammala per la prima volta. Dopo, quasi tutto comincia a essere già vissuto. Così, se penso al decennio passato, quello che all’inizio mi confondevo sempre a scrivere (al posto di 2010 mi veniva fuori sempre 2001, quei due zeri alternati proprio non mi entravano in testa), una prima volta vera è quella in cui, andando via dall’Europa, ho capito di essere europea. Oppure, a dirla meglio: è la prima volta in cui ho dato una soluzione bislacca a un problema inesistente, che poi forse significa essere diventata una scrittrice.

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