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.L'EUROPEO, 1963

1963 La piccola breccia di Berlino

Il Muro restava in piedi. Ma la concessione dei primi lasciapassare ai cittadini dell’Ovest sembrava indicare una nuova era, ispirata da Willy Brandt. Le speranze sarebbero andate presto deluse

(foto Fusar)



di Mino Monicelli

Un uomo, una donna, un bambino. Al ponte di Sandkrug, nella Invalidenstrasse, uno dei cinque valichi per passare a Berlino Est. Tra le nuvole che corrono basse si affaccia una falce sottilissima di luna. Sono le sette, il gelo paralizza i muscoli. Un lampione vecchio e fioco illumina il posto di controllo, una spianata sporca di neve tra quinte di muri grigi, senza finestre. L’uomo e la donna hanno facce livide di freddo, ma sorridono al poliziotto di Berlino Est. Anche il bambino sorride. Il poliziotto è sotto il lampione. Batte i piedi sopra la poltiglia di neve sporca e rigira tra le mani il lasciapassare. Ha voglia di collaborare, lo si vede, ma qualcosa non va, il poliziotto sorride, ma è ombroso. Finalmente alza lo sguardo sull’uomo e dice: «Ma il lasciapassare è per il giorno 20, domani. Oggi è il 19».

L’uomo è magro, a testa nuda, indossa un cappotto lungo e largo, di finto cuoio, sorride e ripete: «Sì, il 19». Forse fa finta di non capire. Il bambino guarda in su, a bocca aperta, il soldato. La donna è l’unica che ha smesso di sorridere, stringe al petto un pacchetto. Il soldato non sa cosa fare. Tre passi dietro di lui c’è il capoposto. Da dove siamo noi, non riesco a distinguere se ha le spalline da ufficiale. Da cinque minuti assiste alla scena senza aprir bocca. Finalmente il soldato si volta, lo interroga con lo sguardo: il capoposto gli fa un cenno di assenso, la faccia del soldato si allarga in un gran sorriso liberatore. Porge il foglio di carta all’ometto dal cappotto di finta pelle, si tira da parte: i tre, uomo donna bambino, passano, danke sehr, auf Wiedersehen, attraversano di buon passo la spianata sporca di neve, si perdono nel buio verso un parente un fratello una zia una madre che non vedono da due anni e mezzo.

Così, in una sera di gelo, otto gradi sotto zero più il vento, ho visto cadere il Muro di Berlino. È caduto in mezzo a un idillio di sorrisi. Sorridevamo tutti al ponte di Sandkrug, poliziotti, curiosi, giornalisti. Eravamo un piccolo, sparuto gruppo col bavero rialzato e col cuore pieno di premura, di gentilezza, di comprensione. Ma il Muro è ancora in piedi, direte. Certo, corre ancora, solido e alto, per chilometri e chilometri attraverso la città. Ma non è più intatto. Una breccia è stata aperta nel suo grigio, compatto spessore. È dalle piccole cose che nascono le grandi cose. Questo è il primo Natale di speranza dei berlinesi. A Ernst Lemmer, ex ministro federale e deputato della Cdu, che nei giorni scorsi sollevava qualche obiezione, Willy Brandt ha risposto duramente al Senato: «In 15 anni la vostra politica ci ha fatto fare soltanto dei passi indietro, lasciateci fare questo passo in avanti». Ha ragione Brandt. Un passo timido ma in avanti. Forse non ho visto proprio cadere il Muro di Berlino. Però ho assistito al fatto umano e politico più grosso che sia avvenuto non a Berlino ma in Germania, nel dopoguerra.

Vi parlerò per prima cosa del fatto umano. Scriveva il Morgenpost, venerdì scorso, primo giorno della grande breccia: «Il rilascio dei lasciapassare minaccia di diventare un dramma». Abbiamo assistito al dramma. Abbiamo visto le code alle scuole dove gli impiegati postali di Berlino Est rilasciavano i permessi. Ma non erano code. Quelle erano le stesse scene selvagge a cui avevamo assistito in Irpinia, quando i contadini si strappavano a vicenda una coperta da casermaggio o una pagnotta di pane. Per la prima volta nella loro carriera, decine di giornalisti hanno visto i tedeschi infischiarsene delle code, cercare di sopraffarsi e (badate, è la pura verità) insultare e minacciare degli uomini in divisa, gli uomini dell’ordine, i propri poliziotti. E questi subivano tutto: non solo gli insulti, ma perfino il disordine. Avevano l’ordine tassativo di non intervenire, di non reagire. Collaborare, questa è la parola d’ordine oggi, sia a Berlino Est che a Berlino Ovest. Anche gli impiegati postali di Berlino Est addetti al rilascio dei permessi sono stati sopraffatti. Erano soltanto cento e di fronte avevano, il primo giorno, dalle 70mila alle 80mila persone. Si sono spontaneamente offerti di fare le ore straordinarie, gratuite. Da sabato il loro numero è stato portato a 150. Se non basteranno si arriverà a 200. Un portavoce del Senato di Berlino Ovest ha tenuto a ringraziarli per la loro collaborazione. «Chiamiamo tutti a collaborare, anche la stampa, perché si possa migliorare la situazione», ha aggiunto. Un’atmosfera di vogliamoci bene, andiamo d’accordo, sta vincendo le difficoltà, le lentezze, gli intoppi burocratici.

Le difficoltà sono enormi: la ressa, l’esasperazione, il freddo. Nel primo giorno sono stati consegnati 59mila lasciapassare, eppure 26mila berlinesi non sono riusciti ad arrivare agli sportelli. A chiedere il pezzo di carta che gli consentirà di vedere parenti, amici, persone care, forse sono 600mila, forse 800mila. La grande maggioranza chiede di passare a Est nei giorni della vigilia e di Natale. In quei due giorni e in quello di San Silvestro, Berlino Est avrà oltre 2 milioni di abitanti, Berlino Ovest sembrerà spopolata. Le code si formano verso le tre del mattino. A quell’ora la temperatura è sui dieci sotto. Non c’è possibilità di muoversi, solo battere i piedi. La sera del primo giorno i casi di svenimento ufficiali, cioè registrati dalla Croce Rossa, erano 1.393. La Croce Rossa ha distribuito 975 litri di tè e 50 litri di cioccolata calda. Alla scuola di Guineastrasse, un vecchio di 82 anni, inebetito dal gelo, usciva sostenuto dalla moglie, col lasciapassare stretto tra le dita, dopo cinque ore di coda e di spinte. Non riusciva a muovere le labbra, ma parlavano i suoi occhi. Alla scuola della Schillerstrasse due bambini, uno di sei e uno di otto anni, smarriti i genitori nella calca, si sono infilati in una coda, sono arrivati dopo sette ore davanti allo sportello, hanno chiesto all’impiegato vogliamo vedere la nonna. La polizia li ha accompagnati prima all’ospedale, poi, visto che stavano benone, a casa dai genitori.

Al posto di controllo della Chausseestrasse venerdì mattina alle nove c’era una ragazza bionda con gli occhiali. Il freddo le aveva acceso gli zigomi. Aspettava la sorella da Berlino Ovest. Non sapeva quando sarebbe venuta ma aspettava. Le ho chiesto se lavorava, quanto guadagnasse: era impiegata in un ufficio di importazioni, guadagnava 600 marchi al mese, 90mila lire. Aveva un aspetto non elegante, ma pulito, ordinato. Le ho chiesto che cosa manca alle ragazze di Berlino Est. Ha detto: «Niente di materiale, forse non c’è in abbondanza caffè o cioccolata. Forse le calze di nylon sono meglio a Berlino Ovest. Ma non è questo che conta. Vorremmo che ci fosse meno diffidenza, meno paura intorno a noi. Invece la gente ancora non si fida; e questo, a lungo andare, è opprimente».

Il tassista di Berlino Est che ci ha portati al posto di controllo dell’Oberbaumbrücke era molto allegro. Nella mattinata aveva già fatto nove corse, il triplo del normale. Era allegro non soltanto perché gli affari andavano bene, ma perché, ha detto, lui e sua moglie aspettavano l’arrivo della suocera da Berlino Ovest. Al nostro silenzio un po’ stupito ha subito precisato: «Ha 79 anni, ieri ha fatto sei ore di coda, forse muore, povera donna». Non sembrava granché addolorato dall’eventualità. All’Oberbaumbrücke verso le 11 si è presentata col lasciapassare una signora elegante con un bambino e una ragazzetta. Lampi di fotografi, assedio di giornalisti. La donna aveva fatto il giorno prima 11 ore di coda. Andava a trovare una zia che non vedeva dal giugno del 1961. La zia abita a Pankow, un sobborgo molto distante. Come arrivava fin là? In tram. Allora le abbiamo offerto di accompagnarla in taxi coi due figli, fino alla casa della vecchia zia, la signora Luck, al numero 45 della Elsa-Brändström-Strasse. Abbiamo assistito all’incontro, agli abbracci, alle lacrime. L’appartamentino era modesto e lindo, con le candeline colorate accese e le tendine alle finestre. Nessun senso di agiatezza, ma neanche ristrettezze. Ci ha detto la signora Luck: «Quando è arrivata la notizia dell’accordo, mi trovavo per strada. La gente si abbracciava, sembravano pazzi di gioia. Qualcuno è corso subito al Muro, forse sperava che le visite cominciassero subito. È dal 1938 che non ricordo un Natale così. È tutto così bello. È bello anche se durerà soltanto fino al 5 gennaio e poi tutto tornerà come prima». È difficile che tutto torni come prima. L’accordo raggiunto alle 17.45 del 17 dicembre, tra Erich Wendt della Rdt, e Horst Korber del Senato di Berlino Ovest, è stato firmato sotto la pressione dell’opinione pubblica. La gente ha dimostrato di essere più forte della ragione di Stato, il fattore umano ha prevalso sulle ideologie. Quando le trattative minacciavano di fallire, ai giornali arrivarono migliaia di lettere.

Erano lettere esasperate. Dicevano pressapoco: «Perché ci trattate in questo modo? Siamo in pace, non più in guerra. Non ce ne importa niente della politica, riconoscete tutto quello che c’è da riconoscere, Berlino Est, Pankow, il confine all’Oder, ma il Muro a Natale deve andar giù». Willy Brandt, che è uomo ideologicamente rozzo ma di grande fiuto politico, non si è lasciato sfuggire l’occasione. Ha visitato le scuole dove si rilasciano i permessi, ha stretto la mano agli impiegati della Rdt. Dicono che fosse restio all’accordo. In realtà, invece, ne è il diretto ispiratore, pur restando dietro le quinte. L’accordo del 17 dicembre è stata una grande battaglia vinta dal leader socialdemocratico berlinese, un grosso passo avanti verso il traguardo del cancellierato. Dal punto di vista politico, l’avvenimento ha dimostrato che, contrariamente a ciò che molti pensavano, il vecchio Konrad Adenauer non conta più niente. La formula, oggi, non è più «immobilismo nell’attesa», ma «avvicinamento attraverso modificazioni». Modificazioni sia pure piccole, ma sufficienti a mettere in moto un ingranaggio arrugginito. L’invito di Walter Ulbricht, contenuto nell’intervista concessa a Stern, non è caduto nel vuoto. Si tratta di sbloccare la situazione attraverso prove di buona volontà, di sedersi allo stesso tavolo per cercare di raggiungere anche minime misure di distensione, per cercare di aprire altre brecce nel Muro. I socialdemocratici di Brandt sono d’accordo. I liberali di Erich Mende anche. Il peso politico dei liberali nel governo di Ludwig Erhard è aumentato, la grande industria vuole commerciare e vendere all’estero. Anche le potenze di occupazione sono d’accordo. John Fitzgerald Kennedy, da morto, sta vincendo.

Le sue tesi, e quelle kruscioviane, sulla prevalenza dei fattori umani rispetto a quelli ideologici, sulla necessità della reciproca tolleranza, stanno avendo il sopravvento a Berlino, massimo focolaio della Guerra fredda. Le esigenze dell’uomo vengono prima dei problemi degli statisti. Da una sola parte si è manifestata qualche perplessità. Attenzione, dicono a Parigi, questo può essere l’inizio di un processo i cui sviluppi non è dato prevedere. Cominciò così anche con la Renania e con la Saar. Se i tedeschi si riuniscono a dispetto di tutti, orientali e occidentali, il gioco può diventare di nuovo pericoloso, è vero. Ma questo è un Paese grande e temibile, che lavora, che produce, che mette al mondo un mucchio di bambini. Il 17 dicembre, per la prima volta, a questa gente è stato fatto fare un passo avanti, non indietro. Il processo è «l’avvicinamento attraverso modificazioni», attraverso prove di buona volontà simili a questa prima. È un processo naturale. Non puoi rovesciarlo. Puoi solo tentare di inserirti in esso perché non diventi, per l’ennesima volta, nocivo. Ho sentito un uomo qui a Berlino, in questo primo Natale di speranza, dopo tanti anni, che diceva: «Adesso speriamo che, dopo papa Giovanni XXIII e dopo Kennedy, non muoia anche Nikita Krusciov».

Mino Monicelli
01 giugno 2009(ultima modifica: 02 giugno 2009)

 
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