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Noi e loro. Le cause, le conseguenze e i rimedi dei conflitti tra gruppi

Bastano a volte differenze del tutto insignificanti perché si creino conflitti fra gruppi di persone. Ma esiste una soluzione

di Vittorio Pelligra

Mark Frechette e Daria Halprin nel film di Michelangelo Antonioni «Zabriskie Point» (Marka)

8' di lettura

Nel 1969 Roger Waters e Richard Wright, rispettivamente bassista e cantante e tastierista dei Pink Floyd compongono una canzone per la colonna sonora di «Zabriskie Point», film-capolavoro di Michelangelo Antonioni. Il pezzo è bellissimo e triste, così triste che Antonioni lo rifiuta. Finirà poi, quattro anni dopo, nell'album culto della band inglese “The Dark Side of the Moon”. Canta Waters: “Black and blue / and who knows which is which and who is who / Up and down / And in the end it's only round 'n round” (Neri o Blu / e chi sa cosa è cosa e chi è chi / sopra e sotto / e alla fine, poi, è solo rotondo).

Il padre di Waters era morto nello sbarco Alleato ad Anzio nel 1944 e la questione di cosa è il “noi” e di cosa, invece, il “loro”, del conflitto e della manipolazione delle identità, sarà sempre una cifra importante della poetica musicale del gruppo inglese.
Siamo noi e loro, neri e blu, italiani e stranieri, ma prima gli italiani e poi tutti gli altri. Sardine e gattini, mi piace la Nutella, a me invece no, non più. Rossoneri e nerazzurri, laziali e romanisti, Beatles e Rolling Stones, Nord e Sud, polentoni e terroni, East Coast e West Coast, eccetera, eccetera, moltissimi eccetera. Molti veri, molti falsi. Molti oggettivi, molti altri, troppi altri, fasulli.

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Le dicotomie che viviamo, che siamo, che ci diamo ogni giorno sono innumerevoli, stratificate, alcune sono profonde e reali, altre sono, invece, artificiose e insignificanti. Tutte, però, ma proprio tutte, hanno il potere quasi magico di influenzare in maniera rilevante il nostro modo di pensare, di percepire la realtà e di agire nei confronti degli altri.
Quando ad un certo punto della nostra evoluzione abbiamo iniziato a vivere in gruppi eterogenei, in villaggi popolati da aggregazioni di clan non direttamente collegati geneticamente tra loro, si è presentata una sfida culturale nuova: come promuovere la cooperazione tra individui che fino ad allora avevano collaborato, si erano aiutati a vicenda e avevano condiviso risorse sulla base della “kin selection”, una forma di altruismo di parentela, visto che tale collante genetico iniziava, ora, a venir meno.

Se un tempo era naturale che la maggiore quota di geni condivisa tra due o più soggetti, significasse una maggiore spinta verso comportamenti di aiuto, ora che la vicinanza genetica veniva meno cosa avrebbe reso coesi e solidali i gruppi? Là dove non possono i geni, può spesso l'evoluzione culturale. Questo collante culturale è il “senso del noi”, che inizia a svilupparsi anche sostenuto da importanti processi biologici. Un senso di identità che ora non si fonda più esclusivamente sulla condivisione di parte del patrimonio genetico, ma su qualcosa di più sfumato, superficiale, transitorio, ma non per questo meno concreto e ed efficace: l'identità di gruppo. La capacità di sentire affinità, vicinanza e solidarietà con i membri del nostro stesso gruppo, benché del tutto estranei da un punto di vista genetico, ha rappresentato una svolta evolutiva, nella nostra storia culturale, che ci ha procurato grandi vantaggi in tempi nei quali, dalla coesione del gruppo, dipendeva in maniera diretta la sopravvivenza del singolo. Questa tendenza all'identificazione, benché le condizioni esterne e le sfide che, come specie, oggi siamo chiamati ad affrontare siano radicalmente mutate, sopravvive e agisce nelle nostre vite e nelle nostre comunità.

Le identità di gruppo e i conflitti
Henri Tajfel
, psicologo inglese di origini polacche, venne catturato dai tedeschi durante la guerra in Francia e rinchiuso, ancora ventenne, in un campo di lavoro. Solo alla fine del conflitto scoprirà che il resto della sua famiglia e la maggior parte dei suoi amici erano stati sterminati nei campi di concentramento nazisti. Anche per lui, come per molti altri studiosi

della sua generazione, la follia nazista rappresenterà, allo stesso tempo, un dramma personale e uno degli enigmi più profondi sulla natura umana e sulle sue patologie da affrontare e cercare di risolvere attraverso i mezzi della scienza. Dedicherà gran parte degli sforzi della sua attività di psicologo sociale allo studio e alla comprensione delle dinamiche del conflitto tra gruppi.

A lui si deve l'elaborazione del cosiddetto “paradigma del gruppo minimale”, un processo attraverso il quale è possibile creare, sulla base di elementi del tutto privi di significato, delle identità, che poi agiscono in maniera profonda sul comportamento individuale e sul potenziale conflitto tra gruppi. Basta, per esempio, mostrare ad un insieme di partecipanti dei quadri di Klee o di Kandinskij e chiedergli quali preferiscono. Una volta assortiti i gruppi sulla base delle loro preferenze sui quadri, questi vengono fatti interagire in vari modi. Per esempio, gli si chiede di distribuire delle risorse economiche tra i membri dei diversi gruppi, in maniera del tutto anonima. Solo l'appartenenza al gruppo degli estimatori di Klee o di Kandinskij viene resa nota.

Quello che emerge, in genere, è una certa tendenza all'equità nella distribuzione delle risorse all'interno del gruppo e una discriminazione, invece, nei confronti di coloro che non appartengono allo stesso gruppo. Una semplice aggregazione, del tutto arbitraria, basata su un elemento insignificante come la preferenza per un tipo di immagine, produce un effetto comportamentale tangibile che porta ad una discriminazione verso coloro che, per qualche ragione, vengono considerati “diversi”. In altri esperimenti l'elemento utilizzato per la creazione del gruppo è ancora più tenue: l'aver ottenuto “testa” o “croce” nel lancio di una moneta o l'aver sotto o sovrastimato il numero di punti presenti in un'immagine.

Il sospetto può nascere dal niente
La conclusione è sempre la stessa: per quanto arbitraria possa essere l'origine della divisione noi-loro, questa produce effetti comportamentali tangibili, modifica la nostra percezione degli altri, ci rende sospettosi e più disposti al conflitto. Il tutto sulla base del niente. Il meccanismo di distinzione tra noi e loro è così potente perché agisce in maniera spontanea e automatica. Usando un test di associazione implicita scopriamo, infatti, che quando ci vengono mostrate delle coppie “naturali”, formate da un membro del nostro gruppo e da una parola dal significato positivo, oppure un membro di un altro gruppo assieme ad una parola di significato negativo, il nostro cervello reagisce velocemente nel giro di qualche millisecondo. Quando invece le coppie sono “innaturali”, formate, cioè, da un membro del nostro stesso gruppo e da una parola negativa o da un membro dell'altro gruppo e una parola positiva, allora il nostro cervello si “blocca”, per così dire; reagisce in un tempo maggiore, ha necessità di elaborare l'associazione inattesa, innaturale.

In un altro esperimento il soggetto viene intervistato da un attore e durante la chiacchierata, uno di fronte all'altro, con un gruppo di soggetti, l'attore sta fermo e ascolta; con un altro gruppo, invece, in maniera impercettibile imita i comportamenti dell'interlocutore, cambiando, via via, postura in maniera sincronizzata con l'altra persona. I soggetti di questo secondo gruppo non solo attivano un maggiore rilascio di dopamina della via mesolimbica (un circuito della ricompensa e del piacere), ma si mostrano maggiormente disposti ad aiutare il ricercatore in varie attività sperimentali. “Sentire” gli altri come dei “noi” e sentirci parte di qualcosa ci dà piacere, crea legami e ci rende disponibili all'azione.

Come non pensare a Leonard Zelig, il protagonista del film di Woody Allen, capace di immedesimarsi con ogni persona con cui passava del tempo, fino ad assumerne addirittura le stesse sembianze fisiche? Il suo “camaleontismo” diventa, col procedere della storia, una moda. Zelig risulta simpatico, è accettato da tutti, diviene una vera celebrità, perché in fondo è “un uomo che non ha un sé, né una personalità. Egli è letteralmente l'immagine proiettata degli altri, uno specchio che restituisce alle persone la propria immagine”. Così commenta lo psicanalista Bruno Bettelheim, che nel film interpreta sé stesso.

Lo sfruttamento del conflitto nella politica
Provate a pensare come questo meccanismo, e non da oggi, viene utilizzato per la costruzione del consenso politico. Leader con i quali è facile immedesimarsi perché sono, in fondo, o cercano strenuamente di apparire, come noi: non hanno studiato molto, come noi; sono spesso sfacciati, come noi; ogni tanto dicono le parolacce, come noi; usano i social per mostrarsi come sono nella vita di tutti i giorni, (solo apparentemente) come noi; e, soprattutto, sono come noi, perché non sono come loro; perché anche noi non siamo come loro. Chiunque siano i “loro”.

Dei segni del tutto arbitrari diventano stimoli associati alla ricompensa, che condizionano il nostro comportamento e le nostre scelte verso di noi e verso gli altri. Anche a livello biologico esistono meccanismi che sembrano rafforzare la dicotomia noi-loro. L'ossitocina, per esempio, che pure ha un effetto positivo nel sostenere comportamenti pro-sociali di fiducia e generosità, di attaccamento e coesione sociale, agisce principalmente nei confronti di soggetti conosciuti, cioè membri del nostro stesso gruppo. Nei confronti di estranei e appartenenti a gruppi diversi dal nostro, al contrario, l'effetto dell'ossitocina è quello di aumentare la discriminazione e l'aggressività. L'”ormone dell'amore” come ogni tanto viene definito, favorisce l'attaccamento e l'amore, ma solo nei confronti di coloro che ci sono familiari; per gli altri, invece, solo sospetto e diffidenza.

Ciò che sembra emergere, dunque, è un messaggio di fatalistica rassegnazione: siamo fondamentalmente razzisti, xenofobi, disprezziamo il diverso anche se questa diversità è minima e insignificante e, sulla base di queste credenze discriminatorie, agiamo di conseguenza, differenziandoci dagli altri ed escludendo e, ciò che è peggio, questa tendenza sembra essere del tutto naturale e spontanea. In realtà le cose sono un po' più complicate.

L’elemento culturale come contrappeso virtuoso
Perché se è vero che questo quadro fosco ci dipinge in maniera realistica, è anche vero che al momento stiamo trascurando un elemento cruciale, che è l'elemento culturale. Un recente studio che ha considerato i gruppi, l'ossitocina e le scelte di aiuto verso gli estranei, ha portato alcuni risultati sorprendenti (Marsh N., 2017. Oxytocin-enforced norm compliance reduces xenophobic outgroup rejection. PNAS 114 (35) 9314-9319). I partecipanti avevano la possibilità di aiutare con delle donazioni monetarie dei soggetti vulnerabili, alcuni appartenenti allo stesso gruppo etnico dei partecipanti, altri invece considerati estranei, degli immigrati.

I soggetti meno xenofobi, secondo alcune misure sperimentali, si dimostrano più altruisti verso i soggetti esterni, mentre quelli più xenofobi, invece, scelgono di aiutare i membri del loro stesso gruppo. Una somministrazione di ossitocina, come prevedibile, non fa altro che accentuare la tendenza. Ma quando alla somministrazione di ossitocina viene associata anche l'informazione sul comportamento di quelli che avevano scelto di aiutare gli estranei, allora le cose cambiano.

Quando anche i più xenofobi scoprono che alcuni di loro, hanno scelto di aiutare anche gli esterni al gruppo, che esiste, cioè, una norma sociale che prevede l'aiuto di chi sta peggio di noi, indipendentemente dal gruppo di appartenenza, allora l'esempio dei pari, sembra fare la differenza.

Nonostante, cioè, la nostra storia evolutiva che ci ha predisposto al conflitto inter-gruppo, la dimensione culturale può prevalere su quella naturale. È come se si potesse attivare un processo di auto-domesticazione, grazie al quale impariamo a controllare gli istinti ormai divenuti maladattivi e a sostituirli con comportamenti appresi socialmente che ci portano risultati collettivamente superiori.

Dovremmo forse imparare, sempre meglio e sempre più spesso, a smontare il giocattolino retorico di chi vuole creare divisioni sul nulla. Imparare a decostruire le ragioni insignificanti dietro differenze arbitrarie. Imparare a esplicitare la logica del conflitto tra gruppi e a mostrare quanto questa sia inutile e ci renda facilmente manipolabili. Perché, in fin dei conti, a nessuno piace essere manipolato.

Per approfondire:
Perché il culto dell'identità serve solo a dividerci

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